venerdì 30 maggio 2008

Dottore di Ricerca, Dottore di Ricerca, Dottore di Ricerca

Sono stati molteplici, vari e decisivi gli impegni che hanno condizionato quest’ultimo mese e mi hanno impedito di dedicarmi al mio piccolo blog come avrei voluto.
Fra questi il più importante è stato certamente l’esame finale del dottorato di ricerca, venerdì 16 maggio 2008. È stata l’occasione per riallacciare i nodi con la mia tesi, con il tempo che ho trascorso nel dottorato, e il momento propizio per tracciare, di questa intensa esperienza durata tre anni e mezzo, un approfondito bilancio, sia dal punto di vista delle conoscenze acquisite, sia dal punto di vista più strettamente umano.
La discussione è stata un momento molto piacevole e gratificante, merito soprattutto del relatore - Alessandro Tinterri - , il quale ha manifestato un notevole interesse per il mio lavoro e per gli sforzi fatti al fine di realizzare non solo una ricostruzione storica puntuale di una sala cinematografica fiorentina, l'Odeon di piazza Strozzi, dai primi anni del Novecento fino agli anni Trenta, ma anche una più ampia riflessione sui vari e complessi fenomeni che ruotano intorno all’oggetto della tesi (come la sala si è inserita nel contesto urbano, come i cinema hanno modificato la percezione della vita cittadina, come la sala ha saputo modellare un diverso spazio pubblico per fasce solitamente relegate ai margini, come le donne e i bambini). La discussione è durata 45 minuti, ma per me si è trattato di un tempo indefinibile, costruito sul passato, sui giorni passati in Biblioteca Nazionale, sui mesi consumati di fronte al pc.
Desidero porgere la mia profonda riconoscenza a tutte quelle persone che mi hanno aiutato a realizzare la tesi di dottorato, che mi hanno sostenuto e appoggiato, ma anche a coloro che hanno criticato in modo costruttivo e mi hanno permesso di modificare, correggere, approfondire il lavoro. Ma soprattutto vorrei ringraziare chi ha sopportato silenziosamente, senza farmele mai pesare, le mie assenze, le crisi, il tutto il tempo che ho sacrificato a loro. La lista è lunga, ma sono sicuro che loro sanno.

Titolo della tesi: L’esercizio cinematografico a Firenze e il cinema teatro Savoia (Odeon). Eventi e spettacoli cinematografici in una sala elegante durante gli anni Venti.
Tutor: prof. Alessandro Bernardi.

Giudizio della commissione:
Le metodologie appaiono ADEGUATE. I risultati sono interessanti ed analizzati con SICURO senso critico.
Nel colloquio il candidato dimostra OTTIMA conoscenza delle problematiche trattate.
La Commissione unanime giudica MOLTO POSITIVAMENTE il lavoro svolto e propone che al Dott. Castellacci Riccardo venga conferito il titolo di Dottore di Ricerca.

La Commissione,

Presidente prof. Bellina Anna Laura,
Membro prof. Biagi Ravenni Gabriella
Segretario prof. Tinterri Alessandro
E qui la fine del post.
Leggi tutto l'articolo

mercoledì 28 maggio 2008

Anche la magistratura parte dello stesso film?


Appena sembrava configurarsi l’ipotesi di una possibile soluzione del problema dei rifiuti, quando le forze politiche, governo, opposizione, l’interessamento diretto del capo di stato, parevano propense a intervenire con piglio deciso, e le gravi tensioni e le barricate a Chiaiano lasciavano intravedere, se non una vera e propria cooperazione fra stato e cittadini, quanto meno lo spiraglio di un dialogo, ecco che arriva, come una scure silenziosa e implacabile, la magistratura a sconquassare un quadro già pieno di crepe e fenditure.
E su chi si abbatte? Non su coloro che hanno sversato e continuano a sversare rifiuti in ogni parte della Campania, no sulle industrie lecite o illecite che si sono arricchite in questi quattordici anni, non su coloro che ogni giorno aprono discariche illegali a celo aperto, non sui personaggi che guidano l’industria illegale dei rifiuti, ma su 25 funzionari, molti dei quali parte della Protezione civile, fra cui Marta Di Gennaro. E Marta di Gennaro è una collaboratrice stretta di Bertolaso.
È certo che ci siano stati e continuano ad esserci gravi e irresponsabili illeciti, [Continua...]
ed è giusto che la magistratura indaghi e persegua persone, politici e funzionari collusi in vari e loschi modi. Ma affidarsi ancora una volta a qualche intercettazione, quando è sotto gli occhi di tutti la prova evidente di un territorio devastato, suscita almeno qualche perplessità. Ma sarà poi vero che la magistratura è esente da dubbi e inefficienze? Gli obiettivi di questa retata, la tempistica, ma soprattutto i modi, ricordano strategie tese a non fare, a bloccare le possibili soluzioni pratiche del problema. La “retata” di oggi assume così i tratti distintivi di un avvertimento in pieno stile camorristico: “Attenti a toccare i vecchi interessi. La politica non riuscirà a spezzare le barricate. Possiamo delegittimarvi come e quando vogliamo.”
La magistratura che assume (o almeno così pare) atteggiamenti che ricordano quelli camorristici, mi pare una delle più terribili conseguenze di questa tragedia dei rifiuti, ormai penetrata fino a modificare il modo in cui la stessa città (e forse l’Italia) si autorappresenta e, in definitiva, come è.
Napoli è sempre più lontana dalle qualità che un tempo le erano tradizionalmente attribuite (che erano anche qualità antropologiche che l’italiano amava accordarsi, l’altruismo, l’arguzia, il genio, la furbizia) e piega verso un unico genere, lo spionaggio, il noir, il docufiction dalle sfumature inquietanti e macabre. Ormai non solo Napoli, ma tutta Italia, ha deciso di assumere questi generi cinematografici (e di fiction televisive) come unica possibilità di raccontarsi ed essere.
In questo modo Napoli finisce per essere, parafrasando Pavese, il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, viene recitato il dramma dell'Italia.

Leggi tutto l'articolo

sabato 24 maggio 2008

La fusione fredda è possibile? Yoshiaki Arata chi è?


Se la fusione fredda è possibile, conveniente e applicabile su larga scala, lo dirà con certezza solo la scienza fra qualche anno. Quello che stupisce è che, in piena crisi energetica, di questa prospettiva non se ne parli molto. L’esperimento di fusione a freddo di due giorni fa (pare perfettamente riuscito), da parte di un fantomatico fisico nucleare giapponese, Yoshiaki Arata, ha ottenuto nel mondo dell’informazione, e in giorni in cui dopo le esternazioni di Scajola fervono le discussioni sul ritorno al nucleare in Italia, una attenzione minima, se non pari a zero.
Ne hanno parlato soltanto Il sole 24 ore (con un titolo inequivocabile,La fusione fredda funziona), il Messaggero e un interessante articolo sul sito del PD (sul quale varrebbe soffermarsi più del tempo di un semplice clic, a mio avviso). Sui quotidiani di lingua inglese non ho trovato alcuna notizia che riporti informazioni dell'esperimento di Yoshiaki Arata. Niente, o molto poco, anche nei siti detti di “controinformazione”, ecoblog, grilli vari.
Eppure sembra che gli italiani svolgano in queste nuove prospettive di ricerca sul nucleare "pulito" un ruolo tutt'altro che marginale (vedi qui l'articolo di un giornale locale!).
Immagino che queste scoperte potrebbero essere ulteriormente sviluppate e aprire notevoli e interessanti possibilità di sfruttamento nel medio termine solo se ben finanziata (e il finanziamento è certo funzione direttamente proporzionale alla praticabilità scientifica ma anche alla visibilità e all’aspettativa che viene generata nell'opinione pubblica).
Cosa aspettate giornalisti, esperti del settore, opinionisti, bloggisti, informatori e controinformatori, a parlare dell’esperimento di Yoshiaki Arata? È possibile avere qualche informazione in più? È una "ecoballa" anche questa? Perché nei siti stranieri non si trova praticamente niente di questo esperimento? Perché alla fine una notizia del genere interessa solo il quotidiano vicino a Confindustria e un sito politico? Chi è e dov'è la casta dell'informazione viene da chiedere...
Leggi tutto l'articolo

venerdì 23 maggio 2008

Gomorra di Garrone (recensione di Lucia Di Girolamo)


Riporto con piacere una bella recensione di Lucia Di Giroloamo, pubblicata
integralmente su drammaturgia.it. Lucia è una dottoranda di cinema che conosce molto bene, attraverso il filtro di una esperienza diretta, la cruda realtà di cui parla il film. In questa recensione "viscerale" si percepisce l'attaccamento, la ferita profonda, la delusione, tutto quel groviglio di sentimenti che è legata a questa semplice e alcune volte tragica frase: "questa è la mia terra".

"C’è una Napoli che precipita ogni giorno e ogni giorno diventa Gomorra.
Gomorra, il nuovo film di Matteo Garrone, sconvolgerà molte coscienze, ma racconta una realtà che per milioni di napoletani è la normalità. [...] Lo sguardo di Garrone penetra in questa terra che sembra a tratti un deserto selvaggio, a tratti un labirinto alla Piranesi, a tratti un paesaggio da cartolina che ha scordato la sua bellezza.
La macchina a spalla, con l’inclemenza e la freddezza dell’osservazione partecipante, scruta in maniera impietosa i volti e i corpi – sublimi e orribili - di quest’esercito d’affiliati, pusher, conniventi, affaristi, che ruota attorno alla Camorra. [Continua...]Garrone e i suoi sceneggiatori (tra cui lo stesso autore del libro) hanno scelto di omettere l’impressionante scena del porto che apre il romanzo di Saviano. [...]
Non c’è nessun manierismo nel raccontare e nessuna reticenza nel rivelare. Garrone ci fa vedere tutto, anche quando non ci mostra tutto. A volte l’occhio della cinepresa è così vicino a quei corpi, così dentro alle soffocanti case di quella macchina architettonica per la proliferazione della criminalità che sono le vele di Secondigliano, che sembra di avvertire l’odore del sangue misto al sudore della paura. Le vele sono lì, poche volte si è parlato di quei labirinti, sicuramente nessuno come Garrone è riuscito a raccontarne l’atmosfera. Ed è curioso che proprio adesso, in questo periodo in cui Napoli balza all’"onore" delle cronache per altre questioni, sia proprio lui, romano, a narrarne la realtà più inenarrabile. Così come è curioso che un napoletano, Paolo Sorrentino, restituisca nel suo ultimo film, Il Divo, presentato anch'esso a Cannes, un ritratto del potere "centrale" di Roma. Si sono invertiti di ruolo o semplicemente queste realtà potrebbero essere interscambiabili? Tutta quell’assurdità è solo napoletana o è forse ascrivibile a tutto il territorio nazionale? Che umanità è questa? Il caleidoscopio dei piccoli fatti, dei mille mestieri, delle perenni recite della napoletanità (della romanità, dell’italianità?) o, piuttosto, il ritratto di una società che precipita, perdendosi nei corridoi senza uscita di un posto come Scampia? Il film di Garrone più che crudo, è rigoroso. È quel rigore necessario per denunciare, per restituire "fenomenologicamente" i fatti, per colpire al cuore le coscienze di chi non ha mai pensato – o ha sempre fatto finta di non pensare - che nello scempio paesaggistico di un litorale martoriato da mostri di cemento potessero essere sepolti i corpi di due ragazzini che volevano essere Tony Montana. © drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it
Leggi tutto l'articolo

mercoledì 23 aprile 2008

Bertolucci e gli italiani anestetizzati

Dopo le uscite di Fuksas ad Annozero di Santoro la settimana scorsa (quando l’architetto ha iniziato a interrogare i vari ospiti non rendendosi conto che, oltre a non dare risposte esatte alle sue domande, assumeva l’atteggiamento di un conduttore televisivo in un quiz, stile Jerry Scotti a 50-50) ieri ci ha pensato Bertolucci a salire in cattedra e a dare la spiegazione definitiva della vittoria di Berlusconi. Bertolucci è convinto (come esprime nel video rilasciato per Micromega) che “Berlusconi è riuscito a mettere in funzione una macchina di anestesia potentissima. […] Gli italiani sono anestetizzati, incapaci di leggere la realtà intorno a loro”. La vittoria di Berlusconi è dovuta esclusivamente al controllo delle televisioni.
E quando ha vinto Prodi cosa è successo, [Continua...] sono state oscurate le televisioni? Il grande fratello ha sospeso le trasmissioni e tutti gli italiani si sono sintonizzati sui programmi di Alberto Angela? E gli errori del centro sinistra e di una coalizione frammentata e disordinata? E la perdita da parte di una intera classe politica "ideologica e comunista" di contatti con i problemi concreti dei cittadini? Niente di tutto ciò. Gli italiani, per Bertolucci, sono incapaci di intendere e di volere, al limite dei malati, degli anestetizzati, che è un termine da salotto buono per dire "rincoglioniti". È questa una delle più profonde e realistiche letture della vittoria berlusconiana, non c'è che dire.
Quando riusciranno gli intellettuali di sinistra ad abbandonare la sindrome di superiorità di cui si nutrono? Quando la smetteranno di criticare con parole vuote quel “sistema” (come dicono) senza capire che in molti casi hanno partecipato attivamente alla sua formazione o non hanno fatto molto per contrastarlo.
Caro Bertolucci, "continuiamo così, facciamoci del male" (per citare un altro che non sempre è alieno da leziosità e supponenza). A me sembra che il tuo atteggiamento, abbia contribuito a far vincere le elezioni a Berlusconi. Ritengo che un intellettuale fine e acuto non si permetterebbe di dare degli stupidi agli italiani (all'italiano medio) e avrebbe preferito criticare giornalisti, scrittori, registi, sceneggiatori di programmi televisivi, produttori, insomma quelli che nei media ci lavorano e li fanno concretamente. Quanto mi manca Pasolini.
Lasciaci sognare e riflettere sui tuoi film, piuttosto.
Leggi tutto l'articolo

giovedì 17 aprile 2008

Riflessioni sul v(u)oto: elezioni 2008

Molte sono le iperboli utilizzate in questi giorni per descrivere la situazione politica delineata dalle elezioni, ma fra queste prevalgono figure retoriche legate ad aspetti geologici e di natura sismica: terremoto, cataclisma, scossa, stravolgimento, sconquasso, tsunami ecc. Un’altra parola molto adoperata al fine di comprendere e dare una forma a questi risultati elettorali è storia, declinata in vari modi: una nuova storia, svolta storica, fine della storia, storia finita, cambiamento di portata storica ecc.
Gli italiani hanno mostrato ancora una volta di essere più avanti degli analisti politici, dei sondaggisti, dei capi di partito e dei politici. Hanno realizzato la più grande riforma elettorale della storia italiana, una rivoluzione messa in moto dalla nascita del partito democratico.
Si tratta in effetti del primo parlamento post-ideologico dalla fine della guerra. Sigle che si richiamavano direttamente all’esperienza del novecento, alle grandi ideologie di massa, al comunismo e al socialismo soprattutto, ma anche al fascismo con i partiti ispirati alla fiamma tricolore, non hanno più rappresentatività all’interno del parlamento italiano. Non è [Continua...] una cosa da poco.
L’unico partito che riproduce una continuità evidente con il novecento italiano è lo scudo crociato di Casini, anche se è ormai molto differente, sia nei volti che nelle finalità, dalla vecchia Dc. L’Udc è stato capace ancora una volta di presidiare i voti del centro (più quelli del defunto Udeur di Mastella che quelli dell’Udc delle scorse alleanze, in realtà). Credo che se questo partito è rimasto è perché esso ha sfruttato la paura dei cambiamenti (soprattutto a livello culturale) cui è sottoposta la società italiana.
Il vuoto a sinistra nel parlamento italiano è certamente l’aspetto più vistoso di questa nuova pagina della politica italiana. Ne hanno parlato, e ne parleranno, in molti, Galli della Loggia sul «Corriere» (Una storia finita), Cossiga (il quale paventa una deriva estremistica), ma anche i vari editorialisti su «Liberazione» e il «Manifesto» di ieri e di oggi.
Spero che la sinistra-sinistra abbia l’umiltà come afferma Ventola di « […] fare un funerale di qualunque dogmatismo, settarismo, spocchia e superbia intellettuale. C’è un lavoro che va ricominciato con immensa modestia. […] Chiudersi in qualunque nicchia significa candidarsi al suicidio» (Intervista a Ventola,«Liberazione» 17/04/08). Di spocchia e superbia intellettuale dovrebbe riuscire a liberarsi anche il Partito Democratico (magari gettando a mare i vari Moretti e i vari Benigni e recuperando un rapporto diretto con la "base").
Se prevalessero letture e posizione opposte a quella di Ventola - è il caso, mi pare, di Piero Sansonetti sempre su «Liberazione» di oggi (del tipo: è tutta colpa di Walter) - la sinistra radicale sarà con ogni probabilità preda di ulteriori ridimensionamenti, diverrà nicchia destinata all'estinzione.
Leggi tutto l'articolo

martedì 15 aprile 2008

Next comicità alla Buster Keaton

Credevo di andare a vedere un film di fantascienza e invece ho assistito ad uno dei migliori film comici di sempre: Next di Lee Tamahori. Sembra quasi incredibile che il film sia tratto da una novella di Philip K. Dick, uno degli autori più interessanti del novecento, che ha saputo regalare alla fantascienza profondità e inquietudine e i cui volumi sono stati saccheggiati dalla cinematografia (basti pensare a Il cacciatore di androidi da cui è stato tratto un capolavoro come Blade Runner di Ridley Scott): o Dick scriveva anche delle scemenze oppure, il che pare molto più probabile, l’adattamento e la trasposizione cinematografica hanno completamente travisato le intenzioni dell’autore del soggetto.
Next riesce ad essere involontariamente un grande film comico. Niente appare minimamente credibile o giustificabile, neanche quello che dovrebbe essere fantascientifico e per questo irreale. Inverosimile la storia (Nicholas Cage è un illusionista dotato di poteri paranormali con i quali riesce a vedere in anticipo i prossimi due minuti e tutto il futuro di una vita di coppia), inverosimili i personaggi (la super agente dell’FBI interpretata da Julianne Moore; i terroristi franco-russi-americani che hanno intenzione di far saltare l'America con un ordigno atomico costruito in un container).
L’incontro d’amore fra Cage e Jessica Biel raggiunge livelli [Continua...] di ilarità incredibili. Lo sguardo da innamorato di Cage rimarrà nella storia come uno dei migliori esempi dell’arte comica (si rischia di rimpiangere Lino Banfi alla vista della Fenech).
Il film fa sorridere per l’approssimazione degli effetti speciali, ma riesce a sorprendere con citazioni del migliore cinema d’autore. Mi riferisco alla scena in cui Cage si butta giù per il pendio della montagna trascinando con sè una valanga di oggetti (auto, camion, pezzi di casa, una enorme catasta di legna, pietre ecc): è una delle più riuscite citazioni di Seven Chances di Buster Keaton, quando Buster, in una delle sue più surreali e ironiche performance, si getta giù dal monte schivando ogni tipo di masso rotolante.
Altra citazione dal cinema alto è quella tratta da Arancia Meccanica, quando Cage è costretto a guardare una serie di filmati davanti a un grande schermo al plasma. Stavolta si tratta di filmati tv che il personaggio stesso proietta con la sua mente sullo schermo (e qui il film vorrebbe forse dispiegare grandi e profonde analogie fra processi della mente, pensiero e immaginazione, con la proiezione audiovisiva).

Se fosse stato un film parodia sarebbe perfettamente riuscito. Next: per i patiti del trash un prodotto da non perdere, per gli altri da non prendere in considerazione.

Cage come Alex
Leggi tutto l'articolo

martedì 8 aprile 2008

Juno e il rifiuto della falsa retorica


Juno è un film che non affronta e non approfondisce i problemi che pone, la maternità giovanile, l’aborto, la fine dell’adoloscenza, la crisi della coppia: semplicemente li schiva, ed è questo un merito non da poco. Il film riesce a sdrammatizzare e ironizzare, in modo divertente e con una dose di non celata furbizia, su problematiche complesse, riuscendo a sfuggire alle insidie della falsa retorica, spesso in agguato quando si parla di adolescenti e maternità.
Juno è una ragazzina di sedici anni ben interpretata da Ellen Page (classe ’87). Il terzo test di gravidanza le dà la prova definitiva di essere incinta di un giovane compagno di scuola, un simpatico “sfigato”. Davanti casa lancia una fune intorno a un ramo di un albero, fa un piccolo cappio e prova ad impiccarsi. Ma la corda è in realtà fatta di zucchero, e la ragazza la rompe affondando con i denti. In questa scena della finta impiccagione è ben racchiuso il senso del film, volto a sdrammatizzare gli eventi. Juno può contare su genitori ultracomprensivi. E su un’amica non nevrotica. Sceglierà di non abortire e di far adottare il bambino da una coppia che, almeno inizialmente, appare perfetta.
Juno è l’abbreviazione di Giunone, che, nella mitologia romana, rappresenta la divinità del matrimonio e del parto. Anche in questo caso è evidente l'umorismo di fondo: il personaggio di Juno si trova al limite fra personaggio realistico e supereroe dei fumetti. E il fumetto viene espressamente citato fin nei titoli iniziali come il mondo da cui Juno proviene.
La maternità giovanile potrebbe dare il via ad una ennesima tragedia adolescenziale fra genitori e figli che non si capiscono. Fortunatamente, [Continua...] e certo non senza mestiere e malizia, Juno, che può contare alla sceneggiatura della blogger ed ex-spogliarellista Diablo Cody, rifugge il dramma, servendosi di un’arma sempre efficiente, e sempre meno diffusa, quella dell’ironia.
Juno affronta temi come maternità e adolescenza senza sfoderare i soliti luoghi comuni di qualche bignami di psicologia o di sociologia; rischia a tratti di apparire superficiale, ma almeno non ha nessuna tesi da dimostrare, non ha l’insoffribile presunzione di sapere come sono fatti i giovani, come si fa ad essere adolescenti e genitori “adeguati”, e non propone - il che appare quasi incredibile - la sofferenza come l’unica e perentoria strada sul cammino della crescita.
Se qualcuno nel film ci fa una figura meschina, questi sono i personaggi maschili: non il padre, l’unico ad essere maturo; in parte il ragazzino, il padre naturale del bambino, un infante al confronto con Juno; soprattutto il marito della giovane coppia che dovrebbe adottare il bambino (interpretato con nota sardonica da Jason Bateman). In questo trentenne, che non vuole prendersi alcuna responsabilità, che si rifiuta testardamente di crescere, che resta ancorato ai suoi miti giovanili, ai concerti, alle feste, ai film, alla musica degli anni novanta, qualcuno avrà l’umiltà di riconoscersi, almeno in parte?
Leggi tutto l'articolo

Una colonna sonora azzeccata: Juno

Il successo di Juno è lo specchio della sua fortunata colonna sonora. È questa il vero architrave del film, con canzoni che vanno dall’allegra e spensierata All I want is you di Barry Louis Polisar, fino all’antifolk orecchiabile di Anyone Else but You dei The Moldy Peaches, cantata in un duetto finale dagli stessi protagonisti del film. Nel mezzo sono molte le canzoni azzeccate, che hanno spinto questa colonna sonora ai primi posti nella classifica americana, fra cui quelle di Kimya Dawson (con il suo folk americano e ben quattro occorrenze) e di altri grandi nomi, come Sonic Youth (in una delle loro canzoni più melodiche, Superstar) o Velvet Undergraund (che danno quel tocco di ricercato e sofisticato con I'm Sticking With You). Ma fra tutte, la canzone che preferisco, e che mi sembra risponda meglio al senso del film, è Expectation dei Belle & Sebastian, gruppo che durante i primi anni novanta si rifiutava di inseguire la strada del rumore e del nichilismo intrapresa dal “fenomeno grundge”, per raccontare con un rock melodico e raffinato storie e miserie di ordinaria eccezionalità. Gli ultimi versi di Expectation ben si adattano al carattere di Juno, la giovane protagonista del film, che da sola avanza nella direzione contraria rispetto ai suoi compagni di scuola:[Continua...]
At the interval you lock yourself away inside a room
Heed of English gets you, asks you, "What the Hell do you think you're doing?"
"Do you think you're better then the other kids? Well get outside."
You've got permission, but you've got to make the bastard think he's right

All’intervallo ti chiudi in una stanza
L’insegnate di inglese ti becca e ti chiede: “Che diavolo pensi di fare?”
“Ti credi meglio degli altri ragazzi? Vieni fuori”
Tu hai il permesso, ma devi far credere al bastardo che abbia ragione.
Leggi tutto l'articolo

venerdì 4 aprile 2008

My bluberry nights, ricordi, dolci alla ricotta


Tutte le notti nel locale di Jeremy (Jude Law) si ripete la stessa storia: alcuni dolci, come il cheesecake all'ananas o la muosse al cioccolato, sono completamente finiti. Di altri rimane sempre l’ultimo pezzo. Ma il dolce ai mirtilli, il bluberry pie, non viene toccato. Nessuno ne ordina mai una fetta. Non ha niente che non va, è un dolce buonissimo, ma probabilmente la gente si vergogna a ordinarlo.
Nell’ultimo film di Wong Kar-wai, My bluberry nights, Jeremy offrirà questo segreto a Elisabeth, (Norah Jones), un po’ per consolarla, un po’ per adescarla.

Mentre preparavo i miei esami alla Facoltà di lettere ho fatto per anni il cameriere, in diversi ristoranti, ma in uno in particolare. Mi ricordo che accadeva più o meno quello che viene raccontato nel film. Alla fine della serata, quello che per me e gran parte della cucina era il dolce più buono restava, se non proprio integro, molto lontano da l'essere finito. Il dolce “alla ricotta” non poteva competere con il “sette delizie”, i vari profiteroles al cioccolato bianco, le crostate di frutta esotica. Era chiaramente un problema di natura linguistica, non culinaria. Non ho mai suggerito di cambiare il nome del dolce. “Dolce alla ricotta” aveva per me una rispettabile e umile dignità. Sapere che alla fine del lavoro avrei potuto contare sulle sue morbidezze era una certezza e una consolazione. Alla fine io e il dolce ci compativamo a vicenda. [Continua...]
Cosa c’entra questo ricordo con il film? Poco. Solo per dire che il cinema del regista cinese Wong è sempre entrato a far parte del mio vissuto. Alcuni suoi film, visti quando avevo poco più di vent’anni, quando vedere un film era come ascoltare una canzone, sono diventati parte del mio modo di guardare. As Tears Go By, Hong Kong Express, Happy Together, Angeli perduti, e poi successivamente In the mood of love e 2046 (quest'ultimo è stato una mezza delusione), hanno significato anche la scoperta di una nouvelle vague ad Hong Kong.
My bluberry nights
non è un film bello come i precedenti. Wong, oltre ad indugiare in uno stilismo che sembra farsi sempre più maniera, ha perso soprattutto la leggerezza, quella che faceva di un film semplice come Hong Kong Express un’opera delicata ed emozionante. Tuttavia vorrei difendere My bluberry nights, anche solo per partito preso, perché lo considero migliore di 2046 (almeno non soffre di decostruzionismo spinto) e perché esso nasconde più doti di quante ne mostri. La mia recensione sul film uscirà a breve su drammaturgia.it (appena sarà ripristinato un server andato distrutto) e qui vorrei dare solo qualche accenno.
My bluberry nights è un road movie intimistico, tutto girato in interni, che ancora una volta conferma come non si possa andare da nessuna parte: l’unico viaggio che oggi possiamo fare è quello del nostro modo di vedere. Elisabeth, la protagonista, diverrà una spettatrice, degli occhi che guardano: le cose accadranno ad altri, fuori da lei.
La figura retorica del film di Wong è ancora una volta il close-up, il primo piano ravvicinato, sia sugli oggetti (il dolce che nella prima inquadratura diventa un amplesso di colori), sia sui volti (il bacio dei due protagonisti), ma anche sul tempo (l’uso del ralenti, che dilata ogni secondo). La stessa immagine, vista da vicino, da più punti di vista, e rallentata, si slabbra, perde i confini e si mostra per quello che è: un guscio vuoto che non racchiude niente.
I personaggi del film sono spesso visti attraverso qualcosa, uno schermo, dietro una vetrina su cui si riflettono le luci delle insegne, attraverso l'occhio freddo delle telecamere che riprendono l'interno del locale. I personaggi a loro volta guardano qualcosa che spesso sfugge, ma che è, in genere, un fuori campo che noi non vediamo e di cui cogliamo solo qualche segno, una strada, un semaforo, un treno che passa.
Fatto della distanza che intercorre fra i personaggi e i loro sguardi, My Bluberry Night è un film nostalgico,
una elegante e raffinata mise en abyme, in cui quello che si desidera e si cerca, alla fine, è il cinema.
Leggi tutto l'articolo

mercoledì 2 aprile 2008

Il cacciatore di aquiloni, una lettura rivelatrice

Il cacciatore di aquiloni è un film deludente: della storia dei due bambini e dell’Afghanistan che ha reso celebre il libro di Khaled Hosseini rimane la scorza esteriore, vuota. Dal punto di vista filmico il ricorso a qualche banale espediente visivo e drammaturgico tenta di mascherare una palese mancanza di idee.

Amir e Hassan sono due ragazzi cresciuti insieme durante gli anni settanta a Kabul, quando l’ Afghanistan non era ancora un paese devastato dalle guerre. Amir è il figlio di un ricco vedovo, Baba (ben interpretato da Homayoun Ershadi, capace di distinguersi rispetto agli altri attori), facoltoso progressista che vive all’occidentale nella sua villetta e che può permettersi di girare con una Ford Mustang. Hassan, di etnia hazara, sciita, è figlio del domestico (almeno così sembra fino all’agnizione finale). Mentre Amir attende a una educazione prestigiosa, impara a scrivere e a raccontare storie, Hassan è un analfabeta dotato però di grande intuito e spirito di osservazione. Hassan è devoto al suo amico-padrone Amir, e sarebbe disposto a fare qualunque cosa per lui. Il rapporto tra i due si incrina quando Hassan viene brutalmente sodomizzato da un gruppo di ragazzini, e Amir resta impotente ad assistere alla scena. I due si separeranno e l’invasione del paese da parte dei russi li allontanerà ancora di più. Amir andrà a vivere insieme al padre negli Stati Uniti, ma, una volta adulto, tornerà a Kabul per ritrovare il figlio di Hassan e portarlo con sé in America. [Continua...]

Il film bene evidenzia quale lettura de Il cacciatore di aquiloni è alla base del successo del libro. Una lettura pronta a dividere i buoni dai cattivi (i russi e i talebani - i mostri malvagi - da una parte, gli americani liberatori e magnanimi dall’altra), i giusti dai disonesti (Amir e Hassan contro i bulli prepotenti), che tende a indicare alcuni valori come assoluti rispetto ad altri (l’occidente resta il punto di arrivo, il fine che giustifica i mezzi). Una lettura banalizzante che appiattisce la storia contraddittoria di un paese flagellato da anni di guerre in poche immagini (la distruzione operata dai russi, gli alberi tagliati, le rovine del paese distrutto, la lapidazione delle donne). Una lettura, infine, che propone più consolazioni che scoperte, che cerca conferme alla propria idea di partenza, che non vuole mettere in crisi nulla, né delle convinzioni, né dello sguardo sulle cose. La sodomizzazione di Hassan doveva significare quella di un intero paese, in cui la comunità internazionale rimaneva a guardare, senza intervenire, complice del massacro, ma nel film diviene un atto brutale compiuto da un gruppo di bulli. Se il discorso politico è banalizzato, il senso di colpa di Amir per non aver avuto il coraggio di restare nel suo paese resta l’unico collante della storia. Un senso di colpa che, reso universale e condivisibile da tutti (e da ogni religione), anche questo alla fine si stempera in spire rassicuranti (l’impotenza non solo psicologica ma anche fisica di Amir è solo accennata): Amir salvando il figlio di Hassan scoprirà e salverà se stesso.

Alla fine il Il cacciatore di aquiloni è un film sull’amicizia, con qualche caduta strappalacrime e qualche bella immagine di aquiloni che ruotano e volteggiano sullo schermo, come degli innocui caccia americani.
Leggi tutto l'articolo

martedì 1 aprile 2008

30 giorni di buio: dieci alle elezioni

30 giorni di buio

Finalmente ho capito qual è la metafora del film 30 giorni di buio (un horror senza pretese uscito a febbraio e prodotto da Sam Raimi, in cui un gruppo di vampiri attacca gli abitanti di una cittadina dell’Alaska che durante l’inverno rimane un mese senza sole): quella dei trenta giorni preelettorali, quando i politici si trasformano in specie di vampiri, eleganti e impeccabili visti da lontano, mostri famelici e deformi appena si avvicinano, pronti a tutto per assicurarsi il voto di cui si nutrono.
Nel nostro caso la corsa all’ultimo voto è già iniziata. Rimangono solo dieci giorni di buio prima delle elezioni. Ma in questo periodo i vampiri-politici hanno ancora più fame. Non si fanno scappare nessuno. Colpiscono chiunque, basta che respiri. Tendono tranelli. Riescono a confondere i polsi più fermi, i sostenitori più convinti. Meglio dunque nascondersi, non muoversi e aspettare il giorno del voto, in silenzio. [Continua...]
I vampiri-politici sono in continuo movimento, non dormono, si spostano da una città a un’altra con grande velocità. Non conoscono limiti e barriere. Si spingono fino negli angoli più angusti. Alla ricerca di qualche italiano all’estero, toccheranno le regioni più remote. Dall’America all’Australia, dalla Siberia fino alle zone antartiche ci saranno figli di figli di italiani da stanare e da convincere. Nessuno ne uscirà incolume.
Non resta che resistere e aspettare.
Quando la luce dei risultati elettorali li colpirà alcuni saranno inceneriti all’istante, altri torneranno ad assumere sembianze umane e a svolgere il loro mestiere. Tuttavia è già successo in passato che qualche individuo maturi la capacità di restare vampiro anche alla luce del sole, e, protetto da una rete di cittadini complici, possa continuare indisturbato a spillare il sangue dei malcapitati.
p.s. Un grazie agli amici che mi hanno fatto vedere questo film illuminante...
Leggi tutto l'articolo

venerdì 28 marzo 2008

La volpe e la bambina: breve stroncatura

Quanti danni può fare una bambina che ha intenzione di addomesticare una volpe selvatica e farla diventare la propria amica? Questo il tema centrale del film La volpe e la bambina di Luc Jacquet. Dal regista de La marcia dei pinguini un film di finzione attraversato da un moralismo a tratti imbarazzante. Nella storia del piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry era la volpe a chiedere “Mi vuoi addomesticare?”. Qui è la bambina che si è messa in testa di addomesticare la volpe, a costo di rompersi una gamba, di rischiare più volte la vita, di perdersi sola nel bosco. La bambina protagonista, capelli rossi, occhi chiarissimi, lentiggini, sguardo fisso e duro – Aidi, insomma, in versione panzer tedesco – si aggira da sola fra i bei paesaggi del Parco Nazionale d’Abruzzo alla ricerca di quella che ha eletto la “sua” volpe (a discapito della povera bestiola, inconsapevole). Che la bambina non sia italiana lo si capisce non solo dai tratti fisionomici, ma anche dal fatto che i genitori non appaiono mai, e la lasciano tranquillamente girellare solitaria per il bosco. [Continua...]

Titù, questo il nome dato alla volpe, condurrà la bambina in un mondo affascinante e allo stesso tempo terribile, nelle parti più misteriose della boscaglia, nel fitto degli alberi, nelle grotte, favorendo l’incontro con tassi, ricci, ranocchie, insetti, lupi, perfino un orso. Le immagini dell’incontro della bambina con la natura sono la parte salvabile del film. Il resto, con la pleonastica e a tratti risibile voce narrante (niente da eccepire dunque sulla scelta di Ambra Angiolini e le sue note affettate e sonnolente), con il suono che sottolinea in modo pletorico (come in un cartone Disney) ogni gesto dei protagonisti, con le trovate in salsa horror, con un intento pedagogico ostentato, è ben adatto a genitori e figli in cerca di anestetici visivi, dopotutto piuttosto innocui.

p.s. Per quanto mi riguarda il più bel film sulle volpi è un film sugli orsi...Grizzly Man di Herzog. Forse quello di Herzog non sarebbe adatto a un pubblico di bambini. Occorrerebbe che i genitori si mettessero accanto ai figli cercando di spiegare e di dare un senso alle immagini. È troppo, vero? Meglio La volpe e la bambina allora…
Leggi tutto l'articolo

Vogliamo anche le rose, approfondimento

Questo post è un po’ lungo, lo ammetto. Ma credo valga la pena approfondire il film di Alina Marazzi, distribuito in sala durante la settimana della festa della donna. Questo anche perché Vogliamo anche le rose cala a proposito in mezzo alle parole vacue dei politici, quando ancora una volta si riaffacciano i fantasmi di chi vorrebbe mettere in discussione la legge 194 in nome di un diritto alla vita che prescinde chi è in vita, chi la vita la dà. La presenza di un partito politico come quello proposto da Giuliano Ferrara deve far riflettere.
Il post è diviso in due parti: la prima è incentrata ad approfondire alcuni tematiche suggerite dal film, la storia della donna durante gli anni sessanta e settanta; la seconda parte è una critica al modo in cui la Marazzi ha utilizzato tutto il ricchissimo materiale che è riuscita a recuperare (efficientemente supportata) per il film. Il lavoro precedente della stessa regista, Un’ora sola ti vorrei, mi era parso da questo punto di vista, più riuscito. Buona lettura. [Continua...]

Il punto di vista contenutistico

Alina Marazzi in Vogliamo anche le rose racconta attraverso un caleidoscopio di immagini di repertorio il grande mutamento antropologico della donna italiana fra gli anni sessanta e settanta. Il filo conduttore è quello di tre diari privati, di tre toccanti testimonianze, in cui la dimensione privata diviene parte e sfuma continuamente nei fatti politici che scuotono l’Italia. Tre diari di una lucidità disarmante: il primo per la capacità di svelare in modo puntuale la repressione intima, prima di tutto sessuale, in cui si trova costretta la protagonista (1964); il secondo per come un trauma privato, l’esperienza terribile di un aborto clandestino (è il 1976 e l’aborto è illegale), riesce a mutarsi in un atto di presa di coscienza politica; il terzo perché già coglie, alla fine degli anni settanta (1977), il ripiegamento delle lotte nel “soggettivo”, nella coppia, nello stretto recinto dell’individuale.
Diversi nelle autrici, per gli anni e le situazioni a cui fanno riferimento, diversi negli scopi, questi tre punti di vista sono accomunati da uno stesso fermento di liberazione che, covato nell’intimità, sotto le coperte, fra le pareti di casa, cerca e trova una via di sfogo sulla scena politica e sociale, riversandosi nelle strade, nelle piazze, nelle manifestazioni. Il processo di mutazione che coinvolge il corpo e la mente della donna appare doloroso, irto di ostacoli e continui ripensamenti. In poco meno di un decennio alcune donne sono riuscite, nonostante tutto, a smarcarsi dai riquadri imposti dall’uomo e dalla società, a rompere con la figura della donna-“qualcosa”, sposa, madre, amante, prostituta, oggetto biologico, e hanno rivendicato il ruolo di soggetto, con una femminilità da scoprire e da costruire.
Nel film della Marazzi si comprende come questo mutamento è parte di un più grande sommovimento che ha tratto energia da profonde scosse a livello sociale ma anche e soprattutto economico. Una grande onda anomala si è propagata dal dopoguerra fino ad abbattersi sulle vecchie istituzioni alla fine degli anni sessanta. La società dei consumi, dei media, con i rotocalchi, le foto, le modelle, le attrici, i film, hanno veicolato una nuova immagine della donna. Immagine che si è andata componendo e arricchendo con quella promossa da femministe e non, attraverso l’istruzione, la cultura, la politica. Il sessantotto ha svolto in questo processo un ruolo centrale, di catalizzazione e punto di emersione del magma sotterraneo a lungo compresso. La violenza di quei giorni e degli anni successivi si spiega in parte con il desiderio di superare di colpo lo scarto che la società italiana aveva accumulato nei confronti dei cambiamenti in corso. Uno scarto che, per quanto riguardava la legislazione nei confronti delle donne, era vergognoso.
La trasformazione antropologica della donna è stata di natura politica, sociale, ma anche privata. I diari raccolti dalla Marazzi rappresentano una testimonianza importantissima di come privato e pubblico siano strettamente intrecciati. La scoperta che contraddistingue il primo diario e in parte i successivi è quella della sessualità. La ricerca del piacere, di un piacere che passa anche attraverso l'esperienza del corpo, diviene finalmente aspirazione non più repressa nella vita della donna. La donna come soggetto ha il diritto dovere di cercare il piacere e la felicità, non più quello di sacrificarsi in nome di un uomo, di una famiglia, della religione. La legislazione inizia a registrare questo spostamento: il divorzio (1974), la parità giuridica dei coniugi (1975), la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (1978). Ma si dovrà aspettare addirittura il 5 agosto 1981 per ottenere l’abrogazione del delitto d’onore e il febbraio 1997 perché la violenza contro le donne diventi reato contro la persona e non più contro la morale.

È facile notare come la situazione descritta in questo documentario, la rottura operata dalla donna nei confronti dei piccoli e grandi dogmi imposti dalla società, dalla tradizione, dalla religione, abbia comportato diramazioni differenti e imprevedibili, ma che si ripercuotono fino ai nostri giorni. L’intento della Marazzi è quello di portare a riflettere sul presente, di interrogarsi sulla condizione delle donna oggi. Le donne degli anni sessanta e settanta, siano esse femministe attiviste, o casalinghe devote, sembrano in entrambi i casi molto lontane dalla sensibilità odierna. Mi sembra di poter dire che la conquista di alcune fondamentali libertà, la rinuncia alla lotta contro le repressioni (ora di minore o diversa intensità e natura), ha provocato come contropartita il sorgere di una profonda insicurezza, in cui si dibatte non solo la donna odierna, ma gran parte della società, incapace di gestire quelle libertà raggiunte, schiacciata dal senso di colpa che ne può scaturire. Ritornare verso quello che si ritiene il luogo natio, la tradizione, come si sente proporre da più parti in queste settimane preelettorali, è una falsa soluzione, dato che la struttura della casa come della chiesa, per quanto solida possa apparire, è ormai corrosa dall’interno.

Il punto di vista filmico

La Marazzi si avvale di un materiale eterogeneo, ricco, stratificato, complesso, di grande impatto emotivo e visivo. Ma sull’uso non mi trova molto d’accordo. Fotogrammi di film privati, documentari, rotocalchi, copertine di riviste, fotografie, manifesti, le voci degli attori che leggono i diari, le musiche di repertorio, suoni sintetizzati: ne esce fuori un grande pasticcio in cui tutto finisce per essere irreparabilmente uguale, banale. Le parole dei diari, di grande intensità, vengono continuamente accompagnate da immagini dalla simbologia ridondante, piedi nudi che camminano sul ghiaccio, navi rompighiaccio che solcano il mare, oppure da immagini didascaliche che mostrano più o meno quello che già le parole suggeriscono. Sembra che l'autrice non abbia fiducia non solo nella forza evocatrice della parola, ma soprattutto nelle immagini e nell’immaginazione dello spettatore.
Eppure la stessa Marazzi ci aveva dato prova con il suo film precedente di una sobrietà e di una eleganza magistrale, nel suo “film di famiglia” Un'ora sola ti vorrei, in cui metteva in scena la storia tragica di sua madre. Lì il percorso scelto permetteva al film di prendere spunto dalla storia privata per poi innalzarsi a tragedia universale, non senza aver mostrato il grande sconforto della madre, la sua lotta disperata contro le ipocrisie del tempo, contro i pregiudizi, contro l'idea di famiglia borghese nella quale non poteva riconoscersi. In Un'ora sola ti vorrei la macchina da presa indugiava spesso sulle pagine del diario, sui segni grafici, sui documenti, riproponeva più volte lo stesso volto, la stessa fotografia (“Quale mistero racchiude un volto?” “È possibile cogliere la sofferenza attraverso l’immagine?” Erano alcune delle domande che il film suggeriva). Un’ora sola ti vorrei non si perdeva dietro la ricerca raffinata ma alla lunga stancante e pretenziosa del montaggio analitico di questa nuova opera.
Con Vogliamo anche le rose il legame fra le parole e gli avvenimenti mostrati, fra i ricordi privati e le manifestazioni pubbliche, fra le parate delle lesbiche i discorsi delle casalinghe, appare sfilacciato e poco comprensibile per chi non ha vissuto quegli anni.
È possibile ritrovare in un documentario costruito con materiale di repertorio un “occhio che guarda”, una visione personale? Certo, e anche la stessa Marazzi lo dimostra. Solo che l’occhio della Marazzi non ci permette né di riposare, né di guardare. È troppo affaccendato. Forse, mi viene da pensare, il materiale a disposizione della Marazzi era in questo caso eccessivo. Se avesse sacrificato qualcosa, il film avrebbe avuto un impatto maggiore, recuperando una più intensa tensione visiva. È facile fare gli Ziga Vertov sulla carta, più difficile esserlo veramente. Il rischio è quello di affondare in una pattumiera di immagini, senza uno sguardo che si interroghi sulle immagini e che le sappia indagare. Vogliamo anche le rose, assecondando questo linguaggio vuole parlare, alla fine dei conti, del presente, dello spaesamento contemporaneo, della perdita di identità nei confronti di un passato così vicino eppure già per molti versi irriconoscibile. Ma per fare questo occorre frapporre una distanza, uno schermo di immagini, rispetto a quello che si mostra.

Qui il sito del film www.vogliamoanchelerose.it
Leggi tutto l'articolo

mercoledì 26 marzo 2008

Mozzarella al cioccolato (o era diossina?)

In Biutiful cauntry c’è una immagine che mi ha colpito: l’arrivo di un addetto che preleva le pecore morte a causa dell’elevata concentrazione di cioccolato, molto maggiore rispetto ai limiti consentiti dalla legge. Nel furgoncino dove l'uomo getta i cadaveri delle pecore e degli agnelli si intravede anche una bufala. Probabilmente morta per lo stesso motivo: troppo cioccolato nel sangue. I pastori nel film raccontavano che i risultati delle analisi condotte sui loro animali, sulle pecore che vivevano accanto alle discariche, erano stati resi noti dopo otto mesi dai prelievi. In questo lasso di tempo hanno continuato inconsapevoli a mangiare la carne degli animali, a fare il formaggio, a vendere il latte. E non sanno quanto cioccolato è finito nel loro sangue. Dopo i risultati il gregge chiaramente è stato abbattuto, in via preventiva. E io dovrei fidarmi dei controlli che vengono fatti? Sapendo che fra prelievo e gli esiti delle analisi intercorre un tempo in cui gli animali sono considerati perfettamente sani? Quale rapporto di fiducia le istituzioni hanno costruito nei confronti di cittadini e consumatori sull'affare denominato "emergenza rifiuti"?
Per fortuna ci pensa D’Alema a rassicurarmi dicendo che (riprendo dal Corriere della Sera) «sono stati effettuati controlli su 132 produttori caseari e sono state rilevate tracce di cioccolato solamente in nove casi». Solo 9 su 132. Pochi, certo. Quasi il 3%. Anche 132 produttori non mi sembrano molti, sinceramente. Ma dopotutto non è che cioccolato, vero?
Leggi tutto l'articolo

However Italia

Oggi sul Financial Times c’è un articolo sull’economia europea (German, French business confidence surges). Germania e Francia stanno attraversando un momento positivo, che appare ancora più sorprendente date le turbolenze sullo scenario mondiale. Un inaspettato incremento del tasso di fiducia dei consumatori per tedeschi e francesi sottolinea la forza delle due principali economie europee, la capacità di sostenere la crisi proveniente dall’Atlantico. Ma l’Italia? Una nota significativa sul nostro paese chiude l’articolo: "Tuttavia, la prospettiva appare più depressa in Italia, dove il tasso di fiducia nei confronti dell’economia è sceso questo mese al più basso livello raggiunto in due anni"(*).
Cosa sarà? Le mozzarelle alla diossina, o Alitalia da salvare? No problem, baby. Per tutte le soluzioni si profila all’orizzonte una bella e allegra cordata dei soliti contribuenti.

(*) However, the outlook appeared much gloomier in Italy, where business confidence has fallen this month to the lowest level in more than two years, according to the ISAE think-tank.
Leggi tutto l'articolo

sabato 22 marzo 2008

Andare a vedere Vogliamo anche le rose

15/3/2008. Sabato sera. Un cinema del centro fiorentino. L’unico fra Firenze e provincia in cui proiettano Vogliamo anche le rose (documentario sulle rivendicazioni femministe tra gli anni sessanta e settanta). Il Fulgor: cinque sale e una facciata da Odeon americano. Ma il west è lontano, qui nella teca del rinascimento. Il cinema si trova in borgo Ognissanti, via acquitrinosa che dal ponte alla Carraia conduce fuori dal centro, verso i viali, verso quel bastione solitario a guardia della periferia di automobili e cemento armato che si chiama Porta al Prato. Borgo Ognissanti, via della Firenze bassa, viva e multietnica, è incastonata come un tumore nella città in svendita dei propri reperti autoptici. [Continua...]

Davanti all’entrata del cinema ci sono gruppi di ragazzini, coppiette e qualche spettatore accompagnato dal telefonino. Molti sono venuti per vedere Grande, grosso e verdone. Lo proiettano nella sala 'mercurio', la più ampia, 270 posti.
Vogliamo anche le rose è proiettato nella sala venere, quella più piccola, 99 posti di passione cinematografica. È quel genere di sala in cui entra solo un certo tipo di pubblico. Molti non ci hanno mai messo piede. O fuggono appena entrati.
È l'unica al piano superiore. La 'soffitta', viene da pensare. Mentre mi incammino sulle scalette sento dietro di me lo sguardo dei ragazzini: mi compatiscono e, allo stesso tempo, mi temono. Come un animale estraneo che tutto sommato rende l’ambiente più caratteristico.
Noto che nel pomeriggio, prima di Vogliamo anche le rose, nella stessa sala era proiettato John Rambo. Peccato non essere arrivato nel momento di avvicendamento fra i due pubblici. Chissà quali occhiate si sono scambiati, scrutandosi e disprezzandosi reciprocamente. Maschilisti contro femministe. Etero contro omo. In entrambi i casi, più che altro, un pubblico di nostalgici, ma di due decenni in contrapposizione fra loro: ottanta contro settanta.
Arrivo prima della fine dello spettacolo e guardo il pubblico uscire. Sono proprio curioso di vedere gli spettatori fiorentini di Vogliamo anche le rose. Mi piacerebbe scoprire insieme madri e figlie. Nonne e nipoti. Sessantottine sessantenni e ragazzine quattordicenni a braccetto, insieme. Con la possibilità di un confronto generazionale in sala. Invece è sempre il solito pubblico. Autoreferenziale. Me compreso. I ragazzetti restano giù affacciati a Grande grosso e verdone o 10.000 a.C. I genitori nella piccola sala a vedere il cinema d’essai. Su venere stasera, non c’è nessuno che abbia meno di venticinque anni. Dovranno costringerli, gli studenti, a vedere Vogliamo anche le rose. Con programmazioni riservate alle scuole. Non è già un fallimento?
Ma a poco a poco capisco che c’è qualcosa di diverso nel pubblico. Ci sono molte coppie di lesbiche. Non ricordo molti casi simili, se non proiezioni in circoli dell’Arci o nel freddo di qualche centro sociale. Mi sorprendo a sorprendermi. Chissà cosa hanno pensato quei ragazzini quando hanno visto salire le lesbiche. Forse la cosa li ha incuriositi. Io mi sento inorgoglito di appartenere al club delle ultime sale, in cui la divergenza fra pubblico e privato è più sottile e sfumata. Questa sale sono specie di privé nel corpo del cinema. Un prolungamento del divano di casa.
Il pubblico della sala venere si disperde nei pochi posti. Anche non volendo gli spettatori finiscono per ritrovarsi uno accanto all’altro. Alcuni si sfilano le scarpe, altri si allungano su due o tre poltroncine. Il silenzio rimane assoluto e costante. Nessuno mangia. Nessuno fiata.
Il film è già iniziato quando entra una coppia (etero). Si capisce da come sono vestiti che hanno sbagliato sala. Forse pensavano di vedere un film romantico. Ho notato nel loro volto una sfumatura di disprezzo e paura, quando entrando hanno intravisto la sala e il suo pubblico. Dopo pochi minuti ridacchiano, forse per cercare di distendere la tensione. Non sanno che in questo modo aumentano l’ostilità nei loro confronti. Dopo qualche minuto iniziano a parlottare fra loro, come se si trovassero nel multiplex da cui certamente provengono. Qui non hanno cittadinanza. È la sala unita che protesta. «Chi sta parlando? » - urla qualcuno dal fondo. «Basta, silenzio» - li fa eco un’ombra dall’altra parte della sala. Coro di approvazione. Ai due non resta che scappare. Quando escono posso sentire la sala venere emetttere un sospiro di sollievo, all’unisono. Finalmente se ne sono andati. L’ordine è stato ristabilito.
La sala torna a vedere nel suo modo il suo film.

Leggi tutto l'articolo

giovedì 20 marzo 2008

Onora il padre e la madre: il fallimento dei padri

La storia di Onora il padre e la madre di Lumet, con i due fratelli la cui condotta di vita è completamente divergente, contraria, rispetto a quella dei propri genitori, mi ha riportato alla mente lo scontro fra il vecchio poliziotto e il nuovo killer senza traccia di umanità di No Country for Old Man.
Anche Lumet, come i Coen, sembra interessato a raccontare la comparsa di una nuova tipologia di persona che ha invaso l’America e il mondo: “i barbari” (per riprendere una comoda definizione), coloro che non hanno più legami con i valori della tradizione. In Onora il padre e la madre si assiste alla messa in scena di uno scontro generazionale, fra la cultura del padre e quella dei figli. Il padre (interpretato da Albert Finney, figura che lo spettatore tende ad associare, e non è un caso, al padre sognatore, all’Ed di Big Fish) rappresenta la cultura della fatica, della tenacia, dei soldi ottenuti lavorando una vita, dell’amore per la moglie che rimane intatto anche nella vecchiaia; i figli, all’opposto, tratteggiano dei personaggi corrotti e vigliacchi che inseguono senza scrupoli soldi, successo e benessere: sono la degenerazione fatta carne e sangue del mondo dei padri. [Continua...]

Se il tema può risultare in fondo simile, il modo in cui i Coen e Lumet lo affrontano è completamente diverso. I Coen sono dei barbari che guardano altri barbari, ne sanno prevedere le mosse, sfruttare le loro stesse tecniche. Lumet appartiene ad un’altra generazione. Deve affidarsi pienamente alle regole della composizione, che non infrange se non in superficie. Ma ha un’arma dalla sua parte: un’ironia caustica e amara, un cinismo freddo ma allo stesso tempo canzonatorio che, posto fra lo sguardo della m.d.p. e i suoi personaggi, gli permette di recuperare un adeguato distacco.
È con questo distacco che Lumet riesce ad affrontare un tema delicato e complesso come quello della crisi dell’istituzione famiglia. Egli riesce a parlare non solo della degenerazione dei figli ma anche del fallimento dei padri, di quella generazione a cui Lumet appartiene. In Before the devil Know You’re dead, come in ogni tragedia che si rispetti, i figli devono scontare le colpe dei padri. Sono quest’ultimi i primi caduti nella trappola del sogno americano. Hanno convinto i propri figli che essere ricchi, belli e felici, era l’unica possibilità data, un dovere morale. Il padre scopre la dura realtà proprio parlando a un commerciante di gioielli, un vecchio ebreo cinico e spietato, che ha la sua stessa età. È lui a rivelargli che il mondo è un posto malvagio. In cui alcuni fanno i soldi, mentre altri, semplicemente, crepano. [Continua...]
Before the devil Know You’re dead mette in scena non tanto la rovina di una famiglia, quanto quella di una società. Una società che ha perso – come direbbe Umberto Galimberti – la disposizione ad educare. Che si è limitata a pro-curare qualcosa, invece che a curare. Che non ha educato all’accettazione incondizionata dell’altro. La formula enunciata da Sant’Agostino, “volo ut sis” (voglio che tu sia quello che sei), è rimasta lettera morta.

Leggi tutto l'articolo

lunedì 17 marzo 2008

Garage Bolzaneto: il Garage Olimpo italiano


Garage olimpo (1999) è un film che difficilmente si scorda. Durante gli anni settanta, a Buenos Aires, mentre la città continua inconsapevole i suoi affari, alcuni attivisti militanti o semplici contestatori vengono rapiti e portati in un garage dove sono torturati. Maria, la protagonista, è una di queste persone. Fra i suoi torturatori scopre un ragazzo che in passato l’aveva corteggiata. Vittima e carnefice si trovano uno di fronte all’altro, sul ciglio di un orrore che non sanno spiegarsi. Garage Olimpo è un film crudo e a tratti disperato sulla tragedia dei desaparecidos argentini, persone innocenti non di rado fatte sparire, gettate in mare da un aeroplano. Il regista è Marco Bechis, nato in Cile, ma poi naturalizzato cittadino italiano. Nel film raccontava la sua esperienza personale di quando era stato sequestrato e detenuto per quattro mesi in un carcere clandestino.

C’è un garage olimpo tutto italiano che aspetta di essere raccontato ed è quello della tragedia di Bolzaneto. Il nostro Abu Ghraib. L’articolo di Giuseppe d’Avanzo su La Repubblica di oggi mi sembra un ottimo spunto. La notte della democrazia, ma forse anche la notte della ragione: così si potrebbe intitolare un film su Bolzaneto. Quello che più colpisce di questa storia, ben raccontata dall’articolo di d’Avanzo, è l’ipocrisia, la faciloneria – tutta italiana – con cui si coprono e si dimenticano gli orrori della nostra storia. Quel sentimentalismo ruffiano che ha trasformato garage bolzaneto in un tempio della democrazia. Con opera di trasformismo si è proceduto ad eliminare ogni traccia di quei giorni. La caserma è stata ristrutturata, le stanze della tortura sono diventate sale per lo studio intitolate a uomini che si sono battuti contro le deportazioni. Tutto per far sembrare quei giorni una parentesi. Da chiudere e dimenticare in fretta. Quello che mi stupisce del racconto non è solo la violenza assurda dei tutori dell’ordine, ma soprattutto l’assoluto silenzio di dottori e infermieri. Come hanno potuto assecondare le torture inflitte? I poliziotti sono stati delle bestie, ma quei dottori non sono nemmeno uomini. Sono tecnici specializzati nel trattamento dei corpi. Non hanno personalità, né umanità. Sono ancora una volta la presenza oscura e silenziosa del male e della sua perniciosa banalità. Ce ne è abbastanza per un film?

Qui di seguito riporto i passaggi dell’articolo che più mi hanno colpito.
(corsivi miei) [...]

«[...]Tortura. Non è una formula impropria o sovratono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano. [...]

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa “degli altri”, di quelli che pensiamo essere “peggio di noi”. Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
[…]

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). [...]

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatrè la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza.

[...]Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". [...]

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. [...]» di Giuseppe D'Avanzo, La Repubblica.it, http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/g8-genova-2/notte-democrazia/notte-democrazia.html

Leggi tutto l'articolo

Onora il padre e la madre: recensione

Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke

Onora il padre e la madre è un bel film, molto più crudo e spietato di quanto mi potessi aspettare dall'ottantaquattrenne Lumet.
Vi riporto parte della recensione al film che ho scritto per drammaturgia e che ritrovate integralmente qui. Seguiranno brevi approfondimenti su alcuni temi...

Lumet realizza un film che è costruito come un meccanismo di precisione, in cui ogni ingranaggio si incastra in modo puntuale sull’altro. Per far questo si serve della struttura del giallo e della tragedia come colonna vertebrale, e di ogni sequenza e inquadratura come di un organo con il quale provocare un movimento ritmico e ricorrente. Ma rispetto a film del passato come Serpico o Quel pomeriggio di un giorno da cani, il regista ottantaquattrenne compone una discesa verso l’inferno progressiva e inesorabile, che non ammette scappatoie, salvezze, facili ironie.
La leva che mette in funzione il meccanismo è solo apparentemente un fatto minimo, banale: una rapina finita male in una gioielleria di periferia. L’anziana commessa riesce ad uccidere il rapinatore, ma a sua volta è ferita a morte. Questo evento è il nodo centrale attorno al quale si dispiega il racconto. Un atto che trascinerà nel baratro la vita di due fratelli e dei loro familiari. Una serie di flashback e flashforward a partire dalla rapina ci conduce dietro le pieghe dell’apparenza. Veniamo così a sapere, tassello dopo tassello, che quella gioielleria era proprietà dei genitori di due fratelli; che sono stati questi ultimi a pianificare la rapina; che la donna ferita a morte è la loro madre. Il film ci svela come l’effetto domino abbia avuto il suo avvio molto tempo prima della rapina, annidato nell’oscurità dei rapporti famigliari, e che le conseguenze catastrofiche non tarderanno a sopraggiungere. [Continua...]

Una cruda scena di sesso fra marito e moglie in vacanza in una piccola camera d’albergo a Rio: questo è il prologo di Before the devil Know You’re dead. Da una parte e dall’altra gli specchi rimandano l’immagine dei due, quasi intrappolati nella loro trivialità, nel godimento di un’effimera felicità carnale, destinata a svanire al sorgere del sole. Già domani sarà il momento di tornare a New York, di indossare nuovamente la maschera consueta, quella di una coppia che non esiste più, minata all’interno da una fitta rete di bugie e tradimenti.
La specularità, la ricerca di una perfetta simmetria, già evidente fin dalla scena del prologo, è la figura retorica che dà forma al film. Una specularità che coinvolge sia il racconto, con l’alternarsi dei vari punti di vista sullo stesso evento, sia lo stile, con le ricercate geometrie della macchina da presa, nei continui campi/controcampi, nei non rari scavalcamenti di campo. Lo sguardo di Lumet diventa freddo e rigoroso, come quello di un entomologo. Ma solo in superficie, perché quello che gli interessa è invece mostrare la parte oscura e passionale che si cela nei suoi personaggi, soprattutto nei due protagonisti, nei due fratelli, Andy e Hank.
Quello che i protagonisti non sanno è che il diavolo si è seduto accanto a loro, e si sta divertendo perché sa già che fine faranno. Il mondo è un posto pericoloso. Qualcuno riesce a farci i soldi. Altri, semplicemente, ci crepano. Non esiste nessun personaggi nemmeno lontanamente positivo in questo film. Nemmeno fra quelli minori. Non esiste nessuno di loro che non abbia qualche colpa da scontare. La dea della giustizia, Nemesi, si abbatterà su tutti i componenti della famiglia, e in modo più feroce col padre, il quale dovrà pagare il prezzo più alto per riportare l’ordine finale.
[Continua...]
Before the devil Know You’re dead mostra una grande sfiducia nell’uomo. Basta limitarsi ad osservarlo un po’ più a lungo perché si tradisca e si mostri, spesso, per quello che è realmente, un essere doppio e terribile che nasconde segreti inconfessabili. La condizione dei protagonisti è quella di rimanere schiacciati in fondo alle stanze, negli uffici squallidi, negli appartamenti freddi e desolati. Sono i personaggi stessi che spesso vengono verso la m.d.p., per mostrare il loro sconforto e cercare pietà.
Una delle scene più belle del film che ben testimonia di questa condizione è certamente il lungo piano sequenza in cui Andy entra nell’appartamento in un grattacelo, per comprare e iniettarsi una dose di eroina in tutta tranquillità. Mentre il pusher, poco più che adolescente, gli prepara la dose, Andy, il manager fallito, si aggira fra le stanze raffinate e asettiche (fashion) dell’appartamento, seguito dalle musichette del cartone animato che provengono da un enorme schermo al plasma attaccato alla parete. Ogni elemento, la musica, i colori, gli oggetti, stride con la condizione del personaggio, e ci permette di cogliere la sua più assoluta solitudine. Fuori dalla finestra è la città che lo guarda, indifferente al suo dramma.

Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke
Leggi tutto l'articolo

giovedì 13 marzo 2008

Note (polemiche) politiche

Giovanni Sartori ha pubblicato oggi sul Corriere un caustico editoriale, "Democrazia al verde". Nell'articolo si passa dai temi della politica italiana a quello, caro al giornalista e in parte al sottoscritto, del riscaldamento ambientale e del fabbisogno energetico. Non è possibile affrontare i problemi economici italiani se non ponendoli su una scala europea ma anche, più in generale, planetaria. Ed è la politica che per prima dovrebbe farsi carico di questa responsabilità. Quale politico abbia realmente intenzione di farlo, beh, questo è un altro mistero italiano. [Continua...]

Sartori elenca i segreti di pulcinella dell’Italia: quei macro problemi ben conosciuti da tutti che gravano sulla nostra crescita e sviluppo. Temi che, piuttosto ironicamente, sembrano eclissarsi nella campagna elettorale. Il motivo per cui non sono sulla bocca dei politici o lo sono soltanto in modo vago, è, io credo, la loro mancanza di attrazione, di “appeal” (per usare un termine orribile ma che rende bene l’idea del marketing elettorale cui siamo sottoposti): la sfiducia sia da parte degli elettori che dei politici di una loro possibile soluzione.
I problemi descritti da Sartori sono: debito pubblico, mafie, infrastrutture. A queste vere palle al piede della mancata crescita italiana si aggiunge la partita ecologica: «l’incombente disastro climatico» (uso parole non mie per non sembrare un disfattista fin da subito), l’approvvigionamento energetico e la scarsezza delle materie prime. Come faremo ad affrontare sfide così vaste e inquietanti come quelle che si prospettano all’orizzonte, in questa situazione di depressione e lento declino dell'Italia?
In questo senso i segreti di pulcinella di cui parla Sartori e le vaghe risposte prospettate dalla politica restituiscono ancora una volta l’immagine di un paese abbattuto, intento a volgere la testa al passato e a fuggire di fronte al fantasma del suo stesso riflesso. La politica deve dare a un paese e alle persone un sogno, un progetto ambizioso. Ma realistico. Non bastano più le barzellette e i proclami popolustici. Ora fra i ceti più poveri non ci sono più soltanto i meno istruiti e gli ingenui.
Leggi tutto l'articolo

mercoledì 12 marzo 2008

Che film avrebbe fatto Pasolini sull’emergenza rifiuti?


Il cambiamento del modo di produzione post-industriale non ha comportato soltanto la proliferazione di una enorme quantità di beni superflui, che si gettano prima che siano stati consumati, ma ha generato quello che Pasolini chiamava una nuova cultura, una modificazione antropologica dell’uomo. Pasolini riteneva che tra il 1961 e il 1975 si fosse realizzato un «genocidio culturale»: il mondo antico e contadino, depositario di valori assoluti, universali, garante della tradizione, era stato cancellato.
Biùtiful cauntri ha il merito non solo di documentare questa distruzione, ma di mostrarci anche fino a che punto è stata spinta: quel mondo di pastori o agricoltori che da generazioni allevano pecore o coltivano ortaggi e frutta, quel mondo refrattario all’ammodernamento, è stato inglobato dalla immondizia. Qualcosa è rimasto, ma si tratta soltanto di uno scarto destinato a sparire, a essere incenerito. Mondi diversi si trovano accomunati da una prossimità non solo fisica, diventano parte di un unico sistema di senso. [Continua...]
Pasolini si era reso conto che i rifiuti, la “immondezza” erano uno dei segni più evidenti del linguaggio delle cose, dell’orrore e della devastazione di una cultura. Era nei rifiuti, tuttavia, che alcuni personaggi delle sue opere conseguivano una nuova consapevolezza e recuperavano l’idea del bello: come i personaggi di Che cosa sono le nuvole?, le due marionette Jago-Totò e Otello-Davoli che erano gettate alla fine dello spettacolo in discarica, e solo allora, fuori dal teatro, vedevano le nuvole e aprivano gli occhi sulla «straziante bellezza del creato». E già in Accattone, nel primo film di Pasolini, il protagonista si innamorava di una donna che lavorava fra i rifiuti, riciclando le bottiglie di vetro per poche lire al giorno. Lo stesso autore aveva realizzato anche un film rimasto inedito sul mondo dei netturbini romani, scoperto da Mimmo Calopresti fra gli scaffali dell’Archivio del movimento operaio e democratico e intitolato Come si fa a non amare Pier Paolo Pasolini. Appunti per un romanzo sull'immondezza.
La lezione di Pasolini è certo ben presente agli autori di Biùtiful cauntri e in particolare ad Andrea D’Ambrosia che aveva realizzato un documentario sul poeta friulano intitolato Nel Paese di Temporali e di Primule. Ma questa viene approfondita solo in parte. Solo in parte si intuisce che i rifiuti sono un fenomeno dietro un altro fenomeno. La presenza orribile della post modernità è diventata il linguaggio delle cose e per narrarla occorre una lingua adatta, appropriata.
Occorrerebbe ritrovare chi si assume la responsabilità intellettuale di raccontarci questo genocidio, di scavare nelle profonde ferite della nostra storia recente, andando oltre la denuncia, l’attualità o il dato allarmistico e scandalistico. Occorrerebbero autori e registi capaci di offrirci una interpretazione poetica di questo dramma.
Ripartire dal documentario mi sembra un piccolo passo in questa direzione, ma a patto che esso si faccia portavoce, in conclusione, di una visione del mondo e del cinema insieme.
Leggi tutto l'articolo

martedì 11 marzo 2008

Biùtiful cauntri


Sabato sera ho dovuto attraversare la città per andare a vedere, nell'unica sala in cui era proiettato, Biùtiful cauntri. Ma ne è valsa la pena. Il film dei tre autori Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe Ruggiero è un bel colpo allo stomaco, che non lascia speranze. E' un viaggio al termine dell'ipocrisia e della stupidità, all'interno del cuore di tenebra che si nasconde in Italia. L'emergenza dei rifiuti Campana non è un problema localistico, ma riguarda tutti gli italiani: è il sintomo più evidente di una tumore nato all'interno della società stessa e a cui occorre dare risposta. [Continua...]
Biùtiful cauntri ci conduce all'interno delle profonde ferite che solcano un paesaggio e la sua gente, in quello che è un vero e proprio "rimosso" istituzionale, politico e civile, e che spesso rifiutiamo ipocritamente di volere vedere.
Andare a vedere il film in sala è dunque un atto di partecipazione attiva alla denuncia, che risponde a un'esigenza civica. Il documentario ci mostra l’interno della discarica ritenuta a norma, che nasconde un vero e proprio lago di percolato, il liquido velenoso che uccide i terreni e filtra nelle falde. Racconta come la camorra abbia permesso alle industrie del nord di sversare in modo indiscriminato materiale tossico ottenuto da scarti di lavorazione di aziende chimiche, siderurgiche, trasformandolo in compost per l’agricoltura. Ma parlando di Biùtiful cauntri non vorrei parlare solo del tema dei rifiuti, ma anche del documentario, non solo di cosa ci mostra, ma anche di come lo fa.
Quando si limita a denunciare, assecondando un certo linguaggio televisivo, con gli inserti video della polizia, l’audio delle intercettazioni, le interviste a tecnici e funzionari capaci di nascondersi dietro le solite parole sacco che più che svelare nascondono ("la camorra", "i politici corrotti", "la massoneria deviata"), il film non ci dice molto di più di quanto abbiamo visto in altre occasioni, nei servizi giornalistici televisivi e su internet. Ma c’è una parte del film che abbandona la denuncia per limitarsi a mostrare la fine di un mondo che è stato spazzato via dalla società dei consumi, un mondo di cui è rimasto lo scarto, che è stato trasformato in rifiuto. E' questa la parte più impressionante e sconvolgente del film: quando ci conduce dentro le terre, nelle case, nelle vite di chi ha visto crescere accanto alla propria abitazione o nei propri campi una montagna di rifiuti pronta a schiacciarli.
Leggi tutto l'articolo

lunedì 10 marzo 2008

Biùtiful cauntri: trailer

Forse qualche anno fa c’era ancora chi era convinto che l’Italia fosse un paese bello, beatiful cauntry, appunto. Basta essere tornati da un viaggio di qualche giorno all’estero, cosa che costa ormai pochissimo e che i giovani fanno sempre più spesso, per rendersi conto che la realtà è un’altra.
Leggi tutto l'articolo

sabato 8 marzo 2008

Cine-poemi: l'Atalante e l'Andrej Rublëv al Cuc

L'Atalante di Jean Vigo: il sogno ad occhi aperti di Jean

Giovedì sera ero al Cuc (Centro Universitario Cinematografico) di Firenze. Dovevo presentare due film che possono essere considerati fra i miti fondatori della storia del cinema: L’Atalante di Jean Vigo e l’Andrej Rublëv (la ë in russo si legge jo) di Tarkovskij. Questo accostamento mi sembra uno dei più interessanti e riusciti della programmazione del Cuc. Qui di seguito riporto alcuni appunti che credo possono essere utili per gli studenti, per le loro relazioni e per offrire qualche spunto di riflessione. Data la lunghezza ho scelto di pubblicarli in tre post separati. Questo contributo non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, originale, omogeneo o di avere valore accademico. Vuole solo essere una scusa per parlare di cinema.
Si potrebbero elaborare interessanti e molteplici confronti fra questi due film, recuperando analogie, sfumature, contrasti e parallelismi. Il rischio sarebbe tuttavia di pervenire a letture in cui l’interpretazione oscura completamente l’opera: il film sparirebbe davanti agli occhi dello spettatore per lasciare solo l’immagine dell’interprete. Certo esiste fra questi due film più di un fattore sostanziale che li rende accostabili, pur nella differenza di scelte stilistiche e poetiche, del quadro storico e culturale nel quale si inscrivono. [...]

C’è una termine usato per definire alcuni film, spesso impiegato a sproposito con altezzosa prosopopea da qualche critico accigliato, magari al fine di relegare alcune opere in reliquari inaccessibili, che risulta particolarmente appropriato per accomunare l’Atalante e l’Andrei Rublëv: è il termine “cine-poema”. La parola deriva dal russo Kinopoema ed era servita a Dziga Vertov per definire alcuni dei suoi “cinegiornali”, film sospesi fra riproduzione del reale e pura ricerca estetica, allo stesso tempo documentari e poesie. Il riferimento a Vertov e allo sperimentalismo visivo degli anni venti non è casuale, dato che in modi diversi, sia Vigo che Tarkovskij hanno fatto del confronto e dialettica con le avanguardie uno degli elementi centrali della loro riflessione e della loro poetica.
In entrambi i film ci troviamo di fronte a due poemi in forma filmica, alla trasposizione in immagini del pensiero poetico e filosofico degli autori. Inutile dire quanto questo tipo di cinema sia lontano da quello a cui siamo normalmente abituati come consumatori di film. L’Atalante di Vigo può essere paragonato a un idillio, un breve componimento lirico improntato a una certa serenità, un episodio amoroso in versi che si svolge in una atmosfera sognante e sentimentale. Nel caso dell’Andrej di Tarkovskij ci troviamo di fronte ad un’opera di notevole estensione e di solenne intonazione epica. In entrambi i casi il linguaggio cinematografico - il modo con cui si rappresenta e non solo ciò che si mostra - diviene non solo una scelta estetica, ma una vera e propria presa di posizione sulla realtà, una posizione politica e morale.


L'Atalante di Jean Vigo


Leggi tutto l'articolo