Questo post è un po’ lungo, lo ammetto. Ma credo valga la pena approfondire il film di Alina Marazzi, distribuito in sala durante la settimana della festa della donna. Questo anche perché Vogliamo anche le rose cala a proposito in mezzo alle parole vacue dei politici, quando ancora una volta si riaffacciano i fantasmi di chi vorrebbe mettere in discussione la legge 194 in nome di un diritto alla vita che prescinde chi è in vita, chi la vita la dà. La presenza di un partito politico come quello proposto da Giuliano Ferrara deve far riflettere.
Il post è diviso in due parti: la prima è incentrata ad approfondire alcuni tematiche suggerite dal film, la storia della donna durante gli anni sessanta e settanta; la seconda parte è una critica al modo in cui la Marazzi ha utilizzato tutto il ricchissimo materiale che è riuscita a recuperare (efficientemente supportata) per il film. Il lavoro precedente della stessa regista, Un’ora sola ti vorrei, mi era parso da questo punto di vista, più riuscito. Buona lettura. [Continua...]
Il punto di vista contenutistico
Alina Marazzi in Vogliamo anche le rose racconta attraverso un caleidoscopio di immagini di repertorio il grande mutamento antropologico della donna italiana fra gli anni sessanta e settanta. Il filo conduttore è quello di tre diari privati, di tre toccanti testimonianze, in cui la dimensione privata diviene parte e sfuma continuamente nei fatti politici che scuotono l’Italia. Tre diari di una lucidità disarmante: il primo per la capacità di svelare in modo puntuale la repressione intima, prima di tutto sessuale, in cui si trova costretta la protagonista (1964); il secondo per come un trauma privato, l’esperienza terribile di un aborto clandestino (è il 1976 e l’aborto è illegale), riesce a mutarsi in un atto di presa di coscienza politica; il terzo perché già coglie, alla fine degli anni settanta (1977), il ripiegamento delle lotte nel “soggettivo”, nella coppia, nello stretto recinto dell’individuale.
Diversi nelle autrici, per gli anni e le situazioni a cui fanno riferimento, diversi negli scopi, questi tre punti di vista sono accomunati da uno stesso fermento di liberazione che, covato nell’intimità, sotto le coperte, fra le pareti di casa, cerca e trova una via di sfogo sulla scena politica e sociale, riversandosi nelle strade, nelle piazze, nelle manifestazioni. Il processo di mutazione che coinvolge il corpo e la mente della donna appare doloroso, irto di ostacoli e continui ripensamenti. In poco meno di un decennio alcune donne sono riuscite, nonostante tutto, a smarcarsi dai riquadri imposti dall’uomo e dalla società, a rompere con la figura della donna-“qualcosa”, sposa, madre, amante, prostituta, oggetto biologico, e hanno rivendicato il ruolo di soggetto, con una femminilità da scoprire e da costruire.
Nel film della Marazzi si comprende come questo mutamento è parte di un più grande sommovimento che ha tratto energia da profonde scosse a livello sociale ma anche e soprattutto economico. Una grande onda anomala si è propagata dal dopoguerra fino ad abbattersi sulle vecchie istituzioni alla fine degli anni sessanta. La società dei consumi, dei media, con i rotocalchi, le foto, le modelle, le attrici, i film, hanno veicolato una nuova immagine della donna. Immagine che si è andata componendo e arricchendo con quella promossa da femministe e non, attraverso l’istruzione, la cultura, la politica. Il sessantotto ha svolto in questo processo un ruolo centrale, di catalizzazione e punto di emersione del magma sotterraneo a lungo compresso. La violenza di quei giorni e degli anni successivi si spiega in parte con il desiderio di superare di colpo lo scarto che la società italiana aveva accumulato nei confronti dei cambiamenti in corso. Uno scarto che, per quanto riguardava la legislazione nei confronti delle donne, era vergognoso.
La trasformazione antropologica della donna è stata di natura politica, sociale, ma anche privata. I diari raccolti dalla Marazzi rappresentano una testimonianza importantissima di come privato e pubblico siano strettamente intrecciati. La scoperta che contraddistingue il primo diario e in parte i successivi è quella della sessualità. La ricerca del piacere, di un piacere che passa anche attraverso l'esperienza del corpo, diviene finalmente aspirazione non più repressa nella vita della donna. La donna come soggetto ha il diritto dovere di cercare il piacere e la felicità, non più quello di sacrificarsi in nome di un uomo, di una famiglia, della religione. La legislazione inizia a registrare questo spostamento: il divorzio (1974), la parità giuridica dei coniugi (1975), la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (1978). Ma si dovrà aspettare addirittura il 5 agosto 1981 per ottenere l’abrogazione del delitto d’onore e il febbraio 1997 perché la violenza contro le donne diventi reato contro la persona e non più contro la morale.
È facile notare come la situazione descritta in questo documentario, la rottura operata dalla donna nei confronti dei piccoli e grandi dogmi imposti dalla società, dalla tradizione, dalla religione, abbia comportato diramazioni differenti e imprevedibili, ma che si ripercuotono fino ai nostri giorni. L’intento della Marazzi è quello di portare a riflettere sul presente, di interrogarsi sulla condizione delle donna oggi. Le donne degli anni sessanta e settanta, siano esse femministe attiviste, o casalinghe devote, sembrano in entrambi i casi molto lontane dalla sensibilità odierna. Mi sembra di poter dire che la conquista di alcune fondamentali libertà, la rinuncia alla lotta contro le repressioni (ora di minore o diversa intensità e natura), ha provocato come contropartita il sorgere di una profonda insicurezza, in cui si dibatte non solo la donna odierna, ma gran parte della società, incapace di gestire quelle libertà raggiunte, schiacciata dal senso di colpa che ne può scaturire. Ritornare verso quello che si ritiene il luogo natio, la tradizione, come si sente proporre da più parti in queste settimane preelettorali, è una falsa soluzione, dato che la struttura della casa come della chiesa, per quanto solida possa apparire, è ormai corrosa dall’interno.
Il punto di vista filmico
La Marazzi si avvale di un materiale eterogeneo, ricco, stratificato, complesso, di grande impatto emotivo e visivo. Ma sull’uso non mi trova molto d’accordo. Fotogrammi di film privati, documentari, rotocalchi, copertine di riviste, fotografie, manifesti, le voci degli attori che leggono i diari, le musiche di repertorio, suoni sintetizzati: ne esce fuori un grande pasticcio in cui tutto finisce per essere irreparabilmente uguale, banale. Le parole dei diari, di grande intensità, vengono continuamente accompagnate da immagini dalla simbologia ridondante, piedi nudi che camminano sul ghiaccio, navi rompighiaccio che solcano il mare, oppure da immagini didascaliche che mostrano più o meno quello che già le parole suggeriscono. Sembra che l'autrice non abbia fiducia non solo nella forza evocatrice della parola, ma soprattutto nelle immagini e nell’immaginazione dello spettatore.
Eppure la stessa Marazzi ci aveva dato prova con il suo film precedente di una sobrietà e di una eleganza magistrale, nel suo “film di famiglia” Un'ora sola ti vorrei, in cui metteva in scena la storia tragica di sua madre. Lì il percorso scelto permetteva al film di prendere spunto dalla storia privata per poi innalzarsi a tragedia universale, non senza aver mostrato il grande sconforto della madre, la sua lotta disperata contro le ipocrisie del tempo, contro i pregiudizi, contro l'idea di famiglia borghese nella quale non poteva riconoscersi. In Un'ora sola ti vorrei la macchina da presa indugiava spesso sulle pagine del diario, sui segni grafici, sui documenti, riproponeva più volte lo stesso volto, la stessa fotografia (“Quale mistero racchiude un volto?” “È possibile cogliere la sofferenza attraverso l’immagine?” Erano alcune delle domande che il film suggeriva). Un’ora sola ti vorrei non si perdeva dietro la ricerca raffinata ma alla lunga stancante e pretenziosa del montaggio analitico di questa nuova opera.
Con Vogliamo anche le rose il legame fra le parole e gli avvenimenti mostrati, fra i ricordi privati e le manifestazioni pubbliche, fra le parate delle lesbiche i discorsi delle casalinghe, appare sfilacciato e poco comprensibile per chi non ha vissuto quegli anni.
È possibile ritrovare in un documentario costruito con materiale di repertorio un “occhio che guarda”, una visione personale? Certo, e anche la stessa Marazzi lo dimostra. Solo che l’occhio della Marazzi non ci permette né di riposare, né di guardare. È troppo affaccendato. Forse, mi viene da pensare, il materiale a disposizione della Marazzi era in questo caso eccessivo. Se avesse sacrificato qualcosa, il film avrebbe avuto un impatto maggiore, recuperando una più intensa tensione visiva. È facile fare gli Ziga Vertov sulla carta, più difficile esserlo veramente. Il rischio è quello di affondare in una pattumiera di immagini, senza uno sguardo che si interroghi sulle immagini e che le sappia indagare. Vogliamo anche le rose, assecondando questo linguaggio vuole parlare, alla fine dei conti, del presente, dello spaesamento contemporaneo, della perdita di identità nei confronti di un passato così vicino eppure già per molti versi irriconoscibile. Ma per fare questo occorre frapporre una distanza, uno schermo di immagini, rispetto a quello che si mostra.
Qui il sito del film www.vogliamoanchelerose.it
Il post è diviso in due parti: la prima è incentrata ad approfondire alcuni tematiche suggerite dal film, la storia della donna durante gli anni sessanta e settanta; la seconda parte è una critica al modo in cui la Marazzi ha utilizzato tutto il ricchissimo materiale che è riuscita a recuperare (efficientemente supportata) per il film. Il lavoro precedente della stessa regista, Un’ora sola ti vorrei, mi era parso da questo punto di vista, più riuscito. Buona lettura. [Continua...]
Il punto di vista contenutistico
Alina Marazzi in Vogliamo anche le rose racconta attraverso un caleidoscopio di immagini di repertorio il grande mutamento antropologico della donna italiana fra gli anni sessanta e settanta. Il filo conduttore è quello di tre diari privati, di tre toccanti testimonianze, in cui la dimensione privata diviene parte e sfuma continuamente nei fatti politici che scuotono l’Italia. Tre diari di una lucidità disarmante: il primo per la capacità di svelare in modo puntuale la repressione intima, prima di tutto sessuale, in cui si trova costretta la protagonista (1964); il secondo per come un trauma privato, l’esperienza terribile di un aborto clandestino (è il 1976 e l’aborto è illegale), riesce a mutarsi in un atto di presa di coscienza politica; il terzo perché già coglie, alla fine degli anni settanta (1977), il ripiegamento delle lotte nel “soggettivo”, nella coppia, nello stretto recinto dell’individuale.
Diversi nelle autrici, per gli anni e le situazioni a cui fanno riferimento, diversi negli scopi, questi tre punti di vista sono accomunati da uno stesso fermento di liberazione che, covato nell’intimità, sotto le coperte, fra le pareti di casa, cerca e trova una via di sfogo sulla scena politica e sociale, riversandosi nelle strade, nelle piazze, nelle manifestazioni. Il processo di mutazione che coinvolge il corpo e la mente della donna appare doloroso, irto di ostacoli e continui ripensamenti. In poco meno di un decennio alcune donne sono riuscite, nonostante tutto, a smarcarsi dai riquadri imposti dall’uomo e dalla società, a rompere con la figura della donna-“qualcosa”, sposa, madre, amante, prostituta, oggetto biologico, e hanno rivendicato il ruolo di soggetto, con una femminilità da scoprire e da costruire.
Nel film della Marazzi si comprende come questo mutamento è parte di un più grande sommovimento che ha tratto energia da profonde scosse a livello sociale ma anche e soprattutto economico. Una grande onda anomala si è propagata dal dopoguerra fino ad abbattersi sulle vecchie istituzioni alla fine degli anni sessanta. La società dei consumi, dei media, con i rotocalchi, le foto, le modelle, le attrici, i film, hanno veicolato una nuova immagine della donna. Immagine che si è andata componendo e arricchendo con quella promossa da femministe e non, attraverso l’istruzione, la cultura, la politica. Il sessantotto ha svolto in questo processo un ruolo centrale, di catalizzazione e punto di emersione del magma sotterraneo a lungo compresso. La violenza di quei giorni e degli anni successivi si spiega in parte con il desiderio di superare di colpo lo scarto che la società italiana aveva accumulato nei confronti dei cambiamenti in corso. Uno scarto che, per quanto riguardava la legislazione nei confronti delle donne, era vergognoso.
La trasformazione antropologica della donna è stata di natura politica, sociale, ma anche privata. I diari raccolti dalla Marazzi rappresentano una testimonianza importantissima di come privato e pubblico siano strettamente intrecciati. La scoperta che contraddistingue il primo diario e in parte i successivi è quella della sessualità. La ricerca del piacere, di un piacere che passa anche attraverso l'esperienza del corpo, diviene finalmente aspirazione non più repressa nella vita della donna. La donna come soggetto ha il diritto dovere di cercare il piacere e la felicità, non più quello di sacrificarsi in nome di un uomo, di una famiglia, della religione. La legislazione inizia a registrare questo spostamento: il divorzio (1974), la parità giuridica dei coniugi (1975), la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (1978). Ma si dovrà aspettare addirittura il 5 agosto 1981 per ottenere l’abrogazione del delitto d’onore e il febbraio 1997 perché la violenza contro le donne diventi reato contro la persona e non più contro la morale.
È facile notare come la situazione descritta in questo documentario, la rottura operata dalla donna nei confronti dei piccoli e grandi dogmi imposti dalla società, dalla tradizione, dalla religione, abbia comportato diramazioni differenti e imprevedibili, ma che si ripercuotono fino ai nostri giorni. L’intento della Marazzi è quello di portare a riflettere sul presente, di interrogarsi sulla condizione delle donna oggi. Le donne degli anni sessanta e settanta, siano esse femministe attiviste, o casalinghe devote, sembrano in entrambi i casi molto lontane dalla sensibilità odierna. Mi sembra di poter dire che la conquista di alcune fondamentali libertà, la rinuncia alla lotta contro le repressioni (ora di minore o diversa intensità e natura), ha provocato come contropartita il sorgere di una profonda insicurezza, in cui si dibatte non solo la donna odierna, ma gran parte della società, incapace di gestire quelle libertà raggiunte, schiacciata dal senso di colpa che ne può scaturire. Ritornare verso quello che si ritiene il luogo natio, la tradizione, come si sente proporre da più parti in queste settimane preelettorali, è una falsa soluzione, dato che la struttura della casa come della chiesa, per quanto solida possa apparire, è ormai corrosa dall’interno.
Il punto di vista filmico
La Marazzi si avvale di un materiale eterogeneo, ricco, stratificato, complesso, di grande impatto emotivo e visivo. Ma sull’uso non mi trova molto d’accordo. Fotogrammi di film privati, documentari, rotocalchi, copertine di riviste, fotografie, manifesti, le voci degli attori che leggono i diari, le musiche di repertorio, suoni sintetizzati: ne esce fuori un grande pasticcio in cui tutto finisce per essere irreparabilmente uguale, banale. Le parole dei diari, di grande intensità, vengono continuamente accompagnate da immagini dalla simbologia ridondante, piedi nudi che camminano sul ghiaccio, navi rompighiaccio che solcano il mare, oppure da immagini didascaliche che mostrano più o meno quello che già le parole suggeriscono. Sembra che l'autrice non abbia fiducia non solo nella forza evocatrice della parola, ma soprattutto nelle immagini e nell’immaginazione dello spettatore.
Eppure la stessa Marazzi ci aveva dato prova con il suo film precedente di una sobrietà e di una eleganza magistrale, nel suo “film di famiglia” Un'ora sola ti vorrei, in cui metteva in scena la storia tragica di sua madre. Lì il percorso scelto permetteva al film di prendere spunto dalla storia privata per poi innalzarsi a tragedia universale, non senza aver mostrato il grande sconforto della madre, la sua lotta disperata contro le ipocrisie del tempo, contro i pregiudizi, contro l'idea di famiglia borghese nella quale non poteva riconoscersi. In Un'ora sola ti vorrei la macchina da presa indugiava spesso sulle pagine del diario, sui segni grafici, sui documenti, riproponeva più volte lo stesso volto, la stessa fotografia (“Quale mistero racchiude un volto?” “È possibile cogliere la sofferenza attraverso l’immagine?” Erano alcune delle domande che il film suggeriva). Un’ora sola ti vorrei non si perdeva dietro la ricerca raffinata ma alla lunga stancante e pretenziosa del montaggio analitico di questa nuova opera.
Con Vogliamo anche le rose il legame fra le parole e gli avvenimenti mostrati, fra i ricordi privati e le manifestazioni pubbliche, fra le parate delle lesbiche i discorsi delle casalinghe, appare sfilacciato e poco comprensibile per chi non ha vissuto quegli anni.
È possibile ritrovare in un documentario costruito con materiale di repertorio un “occhio che guarda”, una visione personale? Certo, e anche la stessa Marazzi lo dimostra. Solo che l’occhio della Marazzi non ci permette né di riposare, né di guardare. È troppo affaccendato. Forse, mi viene da pensare, il materiale a disposizione della Marazzi era in questo caso eccessivo. Se avesse sacrificato qualcosa, il film avrebbe avuto un impatto maggiore, recuperando una più intensa tensione visiva. È facile fare gli Ziga Vertov sulla carta, più difficile esserlo veramente. Il rischio è quello di affondare in una pattumiera di immagini, senza uno sguardo che si interroghi sulle immagini e che le sappia indagare. Vogliamo anche le rose, assecondando questo linguaggio vuole parlare, alla fine dei conti, del presente, dello spaesamento contemporaneo, della perdita di identità nei confronti di un passato così vicino eppure già per molti versi irriconoscibile. Ma per fare questo occorre frapporre una distanza, uno schermo di immagini, rispetto a quello che si mostra.
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