venerdì 30 maggio 2008

Dottore di Ricerca, Dottore di Ricerca, Dottore di Ricerca

Sono stati molteplici, vari e decisivi gli impegni che hanno condizionato quest’ultimo mese e mi hanno impedito di dedicarmi al mio piccolo blog come avrei voluto.
Fra questi il più importante è stato certamente l’esame finale del dottorato di ricerca, venerdì 16 maggio 2008. È stata l’occasione per riallacciare i nodi con la mia tesi, con il tempo che ho trascorso nel dottorato, e il momento propizio per tracciare, di questa intensa esperienza durata tre anni e mezzo, un approfondito bilancio, sia dal punto di vista delle conoscenze acquisite, sia dal punto di vista più strettamente umano.
La discussione è stata un momento molto piacevole e gratificante, merito soprattutto del relatore - Alessandro Tinterri - , il quale ha manifestato un notevole interesse per il mio lavoro e per gli sforzi fatti al fine di realizzare non solo una ricostruzione storica puntuale di una sala cinematografica fiorentina, l'Odeon di piazza Strozzi, dai primi anni del Novecento fino agli anni Trenta, ma anche una più ampia riflessione sui vari e complessi fenomeni che ruotano intorno all’oggetto della tesi (come la sala si è inserita nel contesto urbano, come i cinema hanno modificato la percezione della vita cittadina, come la sala ha saputo modellare un diverso spazio pubblico per fasce solitamente relegate ai margini, come le donne e i bambini). La discussione è durata 45 minuti, ma per me si è trattato di un tempo indefinibile, costruito sul passato, sui giorni passati in Biblioteca Nazionale, sui mesi consumati di fronte al pc.
Desidero porgere la mia profonda riconoscenza a tutte quelle persone che mi hanno aiutato a realizzare la tesi di dottorato, che mi hanno sostenuto e appoggiato, ma anche a coloro che hanno criticato in modo costruttivo e mi hanno permesso di modificare, correggere, approfondire il lavoro. Ma soprattutto vorrei ringraziare chi ha sopportato silenziosamente, senza farmele mai pesare, le mie assenze, le crisi, il tutto il tempo che ho sacrificato a loro. La lista è lunga, ma sono sicuro che loro sanno.

Titolo della tesi: L’esercizio cinematografico a Firenze e il cinema teatro Savoia (Odeon). Eventi e spettacoli cinematografici in una sala elegante durante gli anni Venti.
Tutor: prof. Alessandro Bernardi.

Giudizio della commissione:
Le metodologie appaiono ADEGUATE. I risultati sono interessanti ed analizzati con SICURO senso critico.
Nel colloquio il candidato dimostra OTTIMA conoscenza delle problematiche trattate.
La Commissione unanime giudica MOLTO POSITIVAMENTE il lavoro svolto e propone che al Dott. Castellacci Riccardo venga conferito il titolo di Dottore di Ricerca.

La Commissione,

Presidente prof. Bellina Anna Laura,
Membro prof. Biagi Ravenni Gabriella
Segretario prof. Tinterri Alessandro
E qui la fine del post.
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mercoledì 28 maggio 2008

Anche la magistratura parte dello stesso film?


Appena sembrava configurarsi l’ipotesi di una possibile soluzione del problema dei rifiuti, quando le forze politiche, governo, opposizione, l’interessamento diretto del capo di stato, parevano propense a intervenire con piglio deciso, e le gravi tensioni e le barricate a Chiaiano lasciavano intravedere, se non una vera e propria cooperazione fra stato e cittadini, quanto meno lo spiraglio di un dialogo, ecco che arriva, come una scure silenziosa e implacabile, la magistratura a sconquassare un quadro già pieno di crepe e fenditure.
E su chi si abbatte? Non su coloro che hanno sversato e continuano a sversare rifiuti in ogni parte della Campania, no sulle industrie lecite o illecite che si sono arricchite in questi quattordici anni, non su coloro che ogni giorno aprono discariche illegali a celo aperto, non sui personaggi che guidano l’industria illegale dei rifiuti, ma su 25 funzionari, molti dei quali parte della Protezione civile, fra cui Marta Di Gennaro. E Marta di Gennaro è una collaboratrice stretta di Bertolaso.
È certo che ci siano stati e continuano ad esserci gravi e irresponsabili illeciti, [Continua...]
ed è giusto che la magistratura indaghi e persegua persone, politici e funzionari collusi in vari e loschi modi. Ma affidarsi ancora una volta a qualche intercettazione, quando è sotto gli occhi di tutti la prova evidente di un territorio devastato, suscita almeno qualche perplessità. Ma sarà poi vero che la magistratura è esente da dubbi e inefficienze? Gli obiettivi di questa retata, la tempistica, ma soprattutto i modi, ricordano strategie tese a non fare, a bloccare le possibili soluzioni pratiche del problema. La “retata” di oggi assume così i tratti distintivi di un avvertimento in pieno stile camorristico: “Attenti a toccare i vecchi interessi. La politica non riuscirà a spezzare le barricate. Possiamo delegittimarvi come e quando vogliamo.”
La magistratura che assume (o almeno così pare) atteggiamenti che ricordano quelli camorristici, mi pare una delle più terribili conseguenze di questa tragedia dei rifiuti, ormai penetrata fino a modificare il modo in cui la stessa città (e forse l’Italia) si autorappresenta e, in definitiva, come è.
Napoli è sempre più lontana dalle qualità che un tempo le erano tradizionalmente attribuite (che erano anche qualità antropologiche che l’italiano amava accordarsi, l’altruismo, l’arguzia, il genio, la furbizia) e piega verso un unico genere, lo spionaggio, il noir, il docufiction dalle sfumature inquietanti e macabre. Ormai non solo Napoli, ma tutta Italia, ha deciso di assumere questi generi cinematografici (e di fiction televisive) come unica possibilità di raccontarsi ed essere.
In questo modo Napoli finisce per essere, parafrasando Pavese, il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, viene recitato il dramma dell'Italia.

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sabato 24 maggio 2008

La fusione fredda è possibile? Yoshiaki Arata chi è?


Se la fusione fredda è possibile, conveniente e applicabile su larga scala, lo dirà con certezza solo la scienza fra qualche anno. Quello che stupisce è che, in piena crisi energetica, di questa prospettiva non se ne parli molto. L’esperimento di fusione a freddo di due giorni fa (pare perfettamente riuscito), da parte di un fantomatico fisico nucleare giapponese, Yoshiaki Arata, ha ottenuto nel mondo dell’informazione, e in giorni in cui dopo le esternazioni di Scajola fervono le discussioni sul ritorno al nucleare in Italia, una attenzione minima, se non pari a zero.
Ne hanno parlato soltanto Il sole 24 ore (con un titolo inequivocabile,La fusione fredda funziona), il Messaggero e un interessante articolo sul sito del PD (sul quale varrebbe soffermarsi più del tempo di un semplice clic, a mio avviso). Sui quotidiani di lingua inglese non ho trovato alcuna notizia che riporti informazioni dell'esperimento di Yoshiaki Arata. Niente, o molto poco, anche nei siti detti di “controinformazione”, ecoblog, grilli vari.
Eppure sembra che gli italiani svolgano in queste nuove prospettive di ricerca sul nucleare "pulito" un ruolo tutt'altro che marginale (vedi qui l'articolo di un giornale locale!).
Immagino che queste scoperte potrebbero essere ulteriormente sviluppate e aprire notevoli e interessanti possibilità di sfruttamento nel medio termine solo se ben finanziata (e il finanziamento è certo funzione direttamente proporzionale alla praticabilità scientifica ma anche alla visibilità e all’aspettativa che viene generata nell'opinione pubblica).
Cosa aspettate giornalisti, esperti del settore, opinionisti, bloggisti, informatori e controinformatori, a parlare dell’esperimento di Yoshiaki Arata? È possibile avere qualche informazione in più? È una "ecoballa" anche questa? Perché nei siti stranieri non si trova praticamente niente di questo esperimento? Perché alla fine una notizia del genere interessa solo il quotidiano vicino a Confindustria e un sito politico? Chi è e dov'è la casta dell'informazione viene da chiedere...
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venerdì 23 maggio 2008

Gomorra di Garrone (recensione di Lucia Di Girolamo)


Riporto con piacere una bella recensione di Lucia Di Giroloamo, pubblicata
integralmente su drammaturgia.it. Lucia è una dottoranda di cinema che conosce molto bene, attraverso il filtro di una esperienza diretta, la cruda realtà di cui parla il film. In questa recensione "viscerale" si percepisce l'attaccamento, la ferita profonda, la delusione, tutto quel groviglio di sentimenti che è legata a questa semplice e alcune volte tragica frase: "questa è la mia terra".

"C’è una Napoli che precipita ogni giorno e ogni giorno diventa Gomorra.
Gomorra, il nuovo film di Matteo Garrone, sconvolgerà molte coscienze, ma racconta una realtà che per milioni di napoletani è la normalità. [...] Lo sguardo di Garrone penetra in questa terra che sembra a tratti un deserto selvaggio, a tratti un labirinto alla Piranesi, a tratti un paesaggio da cartolina che ha scordato la sua bellezza.
La macchina a spalla, con l’inclemenza e la freddezza dell’osservazione partecipante, scruta in maniera impietosa i volti e i corpi – sublimi e orribili - di quest’esercito d’affiliati, pusher, conniventi, affaristi, che ruota attorno alla Camorra. [Continua...]Garrone e i suoi sceneggiatori (tra cui lo stesso autore del libro) hanno scelto di omettere l’impressionante scena del porto che apre il romanzo di Saviano. [...]
Non c’è nessun manierismo nel raccontare e nessuna reticenza nel rivelare. Garrone ci fa vedere tutto, anche quando non ci mostra tutto. A volte l’occhio della cinepresa è così vicino a quei corpi, così dentro alle soffocanti case di quella macchina architettonica per la proliferazione della criminalità che sono le vele di Secondigliano, che sembra di avvertire l’odore del sangue misto al sudore della paura. Le vele sono lì, poche volte si è parlato di quei labirinti, sicuramente nessuno come Garrone è riuscito a raccontarne l’atmosfera. Ed è curioso che proprio adesso, in questo periodo in cui Napoli balza all’"onore" delle cronache per altre questioni, sia proprio lui, romano, a narrarne la realtà più inenarrabile. Così come è curioso che un napoletano, Paolo Sorrentino, restituisca nel suo ultimo film, Il Divo, presentato anch'esso a Cannes, un ritratto del potere "centrale" di Roma. Si sono invertiti di ruolo o semplicemente queste realtà potrebbero essere interscambiabili? Tutta quell’assurdità è solo napoletana o è forse ascrivibile a tutto il territorio nazionale? Che umanità è questa? Il caleidoscopio dei piccoli fatti, dei mille mestieri, delle perenni recite della napoletanità (della romanità, dell’italianità?) o, piuttosto, il ritratto di una società che precipita, perdendosi nei corridoi senza uscita di un posto come Scampia? Il film di Garrone più che crudo, è rigoroso. È quel rigore necessario per denunciare, per restituire "fenomenologicamente" i fatti, per colpire al cuore le coscienze di chi non ha mai pensato – o ha sempre fatto finta di non pensare - che nello scempio paesaggistico di un litorale martoriato da mostri di cemento potessero essere sepolti i corpi di due ragazzini che volevano essere Tony Montana. © drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it
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mercoledì 23 aprile 2008

Bertolucci e gli italiani anestetizzati

Dopo le uscite di Fuksas ad Annozero di Santoro la settimana scorsa (quando l’architetto ha iniziato a interrogare i vari ospiti non rendendosi conto che, oltre a non dare risposte esatte alle sue domande, assumeva l’atteggiamento di un conduttore televisivo in un quiz, stile Jerry Scotti a 50-50) ieri ci ha pensato Bertolucci a salire in cattedra e a dare la spiegazione definitiva della vittoria di Berlusconi. Bertolucci è convinto (come esprime nel video rilasciato per Micromega) che “Berlusconi è riuscito a mettere in funzione una macchina di anestesia potentissima. […] Gli italiani sono anestetizzati, incapaci di leggere la realtà intorno a loro”. La vittoria di Berlusconi è dovuta esclusivamente al controllo delle televisioni.
E quando ha vinto Prodi cosa è successo, [Continua...] sono state oscurate le televisioni? Il grande fratello ha sospeso le trasmissioni e tutti gli italiani si sono sintonizzati sui programmi di Alberto Angela? E gli errori del centro sinistra e di una coalizione frammentata e disordinata? E la perdita da parte di una intera classe politica "ideologica e comunista" di contatti con i problemi concreti dei cittadini? Niente di tutto ciò. Gli italiani, per Bertolucci, sono incapaci di intendere e di volere, al limite dei malati, degli anestetizzati, che è un termine da salotto buono per dire "rincoglioniti". È questa una delle più profonde e realistiche letture della vittoria berlusconiana, non c'è che dire.
Quando riusciranno gli intellettuali di sinistra ad abbandonare la sindrome di superiorità di cui si nutrono? Quando la smetteranno di criticare con parole vuote quel “sistema” (come dicono) senza capire che in molti casi hanno partecipato attivamente alla sua formazione o non hanno fatto molto per contrastarlo.
Caro Bertolucci, "continuiamo così, facciamoci del male" (per citare un altro che non sempre è alieno da leziosità e supponenza). A me sembra che il tuo atteggiamento, abbia contribuito a far vincere le elezioni a Berlusconi. Ritengo che un intellettuale fine e acuto non si permetterebbe di dare degli stupidi agli italiani (all'italiano medio) e avrebbe preferito criticare giornalisti, scrittori, registi, sceneggiatori di programmi televisivi, produttori, insomma quelli che nei media ci lavorano e li fanno concretamente. Quanto mi manca Pasolini.
Lasciaci sognare e riflettere sui tuoi film, piuttosto.
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giovedì 17 aprile 2008

Riflessioni sul v(u)oto: elezioni 2008

Molte sono le iperboli utilizzate in questi giorni per descrivere la situazione politica delineata dalle elezioni, ma fra queste prevalgono figure retoriche legate ad aspetti geologici e di natura sismica: terremoto, cataclisma, scossa, stravolgimento, sconquasso, tsunami ecc. Un’altra parola molto adoperata al fine di comprendere e dare una forma a questi risultati elettorali è storia, declinata in vari modi: una nuova storia, svolta storica, fine della storia, storia finita, cambiamento di portata storica ecc.
Gli italiani hanno mostrato ancora una volta di essere più avanti degli analisti politici, dei sondaggisti, dei capi di partito e dei politici. Hanno realizzato la più grande riforma elettorale della storia italiana, una rivoluzione messa in moto dalla nascita del partito democratico.
Si tratta in effetti del primo parlamento post-ideologico dalla fine della guerra. Sigle che si richiamavano direttamente all’esperienza del novecento, alle grandi ideologie di massa, al comunismo e al socialismo soprattutto, ma anche al fascismo con i partiti ispirati alla fiamma tricolore, non hanno più rappresentatività all’interno del parlamento italiano. Non è [Continua...] una cosa da poco.
L’unico partito che riproduce una continuità evidente con il novecento italiano è lo scudo crociato di Casini, anche se è ormai molto differente, sia nei volti che nelle finalità, dalla vecchia Dc. L’Udc è stato capace ancora una volta di presidiare i voti del centro (più quelli del defunto Udeur di Mastella che quelli dell’Udc delle scorse alleanze, in realtà). Credo che se questo partito è rimasto è perché esso ha sfruttato la paura dei cambiamenti (soprattutto a livello culturale) cui è sottoposta la società italiana.
Il vuoto a sinistra nel parlamento italiano è certamente l’aspetto più vistoso di questa nuova pagina della politica italiana. Ne hanno parlato, e ne parleranno, in molti, Galli della Loggia sul «Corriere» (Una storia finita), Cossiga (il quale paventa una deriva estremistica), ma anche i vari editorialisti su «Liberazione» e il «Manifesto» di ieri e di oggi.
Spero che la sinistra-sinistra abbia l’umiltà come afferma Ventola di « […] fare un funerale di qualunque dogmatismo, settarismo, spocchia e superbia intellettuale. C’è un lavoro che va ricominciato con immensa modestia. […] Chiudersi in qualunque nicchia significa candidarsi al suicidio» (Intervista a Ventola,«Liberazione» 17/04/08). Di spocchia e superbia intellettuale dovrebbe riuscire a liberarsi anche il Partito Democratico (magari gettando a mare i vari Moretti e i vari Benigni e recuperando un rapporto diretto con la "base").
Se prevalessero letture e posizione opposte a quella di Ventola - è il caso, mi pare, di Piero Sansonetti sempre su «Liberazione» di oggi (del tipo: è tutta colpa di Walter) - la sinistra radicale sarà con ogni probabilità preda di ulteriori ridimensionamenti, diverrà nicchia destinata all'estinzione.
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martedì 15 aprile 2008

Next comicità alla Buster Keaton

Credevo di andare a vedere un film di fantascienza e invece ho assistito ad uno dei migliori film comici di sempre: Next di Lee Tamahori. Sembra quasi incredibile che il film sia tratto da una novella di Philip K. Dick, uno degli autori più interessanti del novecento, che ha saputo regalare alla fantascienza profondità e inquietudine e i cui volumi sono stati saccheggiati dalla cinematografia (basti pensare a Il cacciatore di androidi da cui è stato tratto un capolavoro come Blade Runner di Ridley Scott): o Dick scriveva anche delle scemenze oppure, il che pare molto più probabile, l’adattamento e la trasposizione cinematografica hanno completamente travisato le intenzioni dell’autore del soggetto.
Next riesce ad essere involontariamente un grande film comico. Niente appare minimamente credibile o giustificabile, neanche quello che dovrebbe essere fantascientifico e per questo irreale. Inverosimile la storia (Nicholas Cage è un illusionista dotato di poteri paranormali con i quali riesce a vedere in anticipo i prossimi due minuti e tutto il futuro di una vita di coppia), inverosimili i personaggi (la super agente dell’FBI interpretata da Julianne Moore; i terroristi franco-russi-americani che hanno intenzione di far saltare l'America con un ordigno atomico costruito in un container).
L’incontro d’amore fra Cage e Jessica Biel raggiunge livelli [Continua...] di ilarità incredibili. Lo sguardo da innamorato di Cage rimarrà nella storia come uno dei migliori esempi dell’arte comica (si rischia di rimpiangere Lino Banfi alla vista della Fenech).
Il film fa sorridere per l’approssimazione degli effetti speciali, ma riesce a sorprendere con citazioni del migliore cinema d’autore. Mi riferisco alla scena in cui Cage si butta giù per il pendio della montagna trascinando con sè una valanga di oggetti (auto, camion, pezzi di casa, una enorme catasta di legna, pietre ecc): è una delle più riuscite citazioni di Seven Chances di Buster Keaton, quando Buster, in una delle sue più surreali e ironiche performance, si getta giù dal monte schivando ogni tipo di masso rotolante.
Altra citazione dal cinema alto è quella tratta da Arancia Meccanica, quando Cage è costretto a guardare una serie di filmati davanti a un grande schermo al plasma. Stavolta si tratta di filmati tv che il personaggio stesso proietta con la sua mente sullo schermo (e qui il film vorrebbe forse dispiegare grandi e profonde analogie fra processi della mente, pensiero e immaginazione, con la proiezione audiovisiva).

Se fosse stato un film parodia sarebbe perfettamente riuscito. Next: per i patiti del trash un prodotto da non perdere, per gli altri da non prendere in considerazione.

Cage come Alex
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martedì 8 aprile 2008

Juno e il rifiuto della falsa retorica


Juno è un film che non affronta e non approfondisce i problemi che pone, la maternità giovanile, l’aborto, la fine dell’adoloscenza, la crisi della coppia: semplicemente li schiva, ed è questo un merito non da poco. Il film riesce a sdrammatizzare e ironizzare, in modo divertente e con una dose di non celata furbizia, su problematiche complesse, riuscendo a sfuggire alle insidie della falsa retorica, spesso in agguato quando si parla di adolescenti e maternità.
Juno è una ragazzina di sedici anni ben interpretata da Ellen Page (classe ’87). Il terzo test di gravidanza le dà la prova definitiva di essere incinta di un giovane compagno di scuola, un simpatico “sfigato”. Davanti casa lancia una fune intorno a un ramo di un albero, fa un piccolo cappio e prova ad impiccarsi. Ma la corda è in realtà fatta di zucchero, e la ragazza la rompe affondando con i denti. In questa scena della finta impiccagione è ben racchiuso il senso del film, volto a sdrammatizzare gli eventi. Juno può contare su genitori ultracomprensivi. E su un’amica non nevrotica. Sceglierà di non abortire e di far adottare il bambino da una coppia che, almeno inizialmente, appare perfetta.
Juno è l’abbreviazione di Giunone, che, nella mitologia romana, rappresenta la divinità del matrimonio e del parto. Anche in questo caso è evidente l'umorismo di fondo: il personaggio di Juno si trova al limite fra personaggio realistico e supereroe dei fumetti. E il fumetto viene espressamente citato fin nei titoli iniziali come il mondo da cui Juno proviene.
La maternità giovanile potrebbe dare il via ad una ennesima tragedia adolescenziale fra genitori e figli che non si capiscono. Fortunatamente, [Continua...] e certo non senza mestiere e malizia, Juno, che può contare alla sceneggiatura della blogger ed ex-spogliarellista Diablo Cody, rifugge il dramma, servendosi di un’arma sempre efficiente, e sempre meno diffusa, quella dell’ironia.
Juno affronta temi come maternità e adolescenza senza sfoderare i soliti luoghi comuni di qualche bignami di psicologia o di sociologia; rischia a tratti di apparire superficiale, ma almeno non ha nessuna tesi da dimostrare, non ha l’insoffribile presunzione di sapere come sono fatti i giovani, come si fa ad essere adolescenti e genitori “adeguati”, e non propone - il che appare quasi incredibile - la sofferenza come l’unica e perentoria strada sul cammino della crescita.
Se qualcuno nel film ci fa una figura meschina, questi sono i personaggi maschili: non il padre, l’unico ad essere maturo; in parte il ragazzino, il padre naturale del bambino, un infante al confronto con Juno; soprattutto il marito della giovane coppia che dovrebbe adottare il bambino (interpretato con nota sardonica da Jason Bateman). In questo trentenne, che non vuole prendersi alcuna responsabilità, che si rifiuta testardamente di crescere, che resta ancorato ai suoi miti giovanili, ai concerti, alle feste, ai film, alla musica degli anni novanta, qualcuno avrà l’umiltà di riconoscersi, almeno in parte?
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Una colonna sonora azzeccata: Juno

Il successo di Juno è lo specchio della sua fortunata colonna sonora. È questa il vero architrave del film, con canzoni che vanno dall’allegra e spensierata All I want is you di Barry Louis Polisar, fino all’antifolk orecchiabile di Anyone Else but You dei The Moldy Peaches, cantata in un duetto finale dagli stessi protagonisti del film. Nel mezzo sono molte le canzoni azzeccate, che hanno spinto questa colonna sonora ai primi posti nella classifica americana, fra cui quelle di Kimya Dawson (con il suo folk americano e ben quattro occorrenze) e di altri grandi nomi, come Sonic Youth (in una delle loro canzoni più melodiche, Superstar) o Velvet Undergraund (che danno quel tocco di ricercato e sofisticato con I'm Sticking With You). Ma fra tutte, la canzone che preferisco, e che mi sembra risponda meglio al senso del film, è Expectation dei Belle & Sebastian, gruppo che durante i primi anni novanta si rifiutava di inseguire la strada del rumore e del nichilismo intrapresa dal “fenomeno grundge”, per raccontare con un rock melodico e raffinato storie e miserie di ordinaria eccezionalità. Gli ultimi versi di Expectation ben si adattano al carattere di Juno, la giovane protagonista del film, che da sola avanza nella direzione contraria rispetto ai suoi compagni di scuola:[Continua...]
At the interval you lock yourself away inside a room
Heed of English gets you, asks you, "What the Hell do you think you're doing?"
"Do you think you're better then the other kids? Well get outside."
You've got permission, but you've got to make the bastard think he's right

All’intervallo ti chiudi in una stanza
L’insegnate di inglese ti becca e ti chiede: “Che diavolo pensi di fare?”
“Ti credi meglio degli altri ragazzi? Vieni fuori”
Tu hai il permesso, ma devi far credere al bastardo che abbia ragione.
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venerdì 4 aprile 2008

My bluberry nights, ricordi, dolci alla ricotta


Tutte le notti nel locale di Jeremy (Jude Law) si ripete la stessa storia: alcuni dolci, come il cheesecake all'ananas o la muosse al cioccolato, sono completamente finiti. Di altri rimane sempre l’ultimo pezzo. Ma il dolce ai mirtilli, il bluberry pie, non viene toccato. Nessuno ne ordina mai una fetta. Non ha niente che non va, è un dolce buonissimo, ma probabilmente la gente si vergogna a ordinarlo.
Nell’ultimo film di Wong Kar-wai, My bluberry nights, Jeremy offrirà questo segreto a Elisabeth, (Norah Jones), un po’ per consolarla, un po’ per adescarla.

Mentre preparavo i miei esami alla Facoltà di lettere ho fatto per anni il cameriere, in diversi ristoranti, ma in uno in particolare. Mi ricordo che accadeva più o meno quello che viene raccontato nel film. Alla fine della serata, quello che per me e gran parte della cucina era il dolce più buono restava, se non proprio integro, molto lontano da l'essere finito. Il dolce “alla ricotta” non poteva competere con il “sette delizie”, i vari profiteroles al cioccolato bianco, le crostate di frutta esotica. Era chiaramente un problema di natura linguistica, non culinaria. Non ho mai suggerito di cambiare il nome del dolce. “Dolce alla ricotta” aveva per me una rispettabile e umile dignità. Sapere che alla fine del lavoro avrei potuto contare sulle sue morbidezze era una certezza e una consolazione. Alla fine io e il dolce ci compativamo a vicenda. [Continua...]
Cosa c’entra questo ricordo con il film? Poco. Solo per dire che il cinema del regista cinese Wong è sempre entrato a far parte del mio vissuto. Alcuni suoi film, visti quando avevo poco più di vent’anni, quando vedere un film era come ascoltare una canzone, sono diventati parte del mio modo di guardare. As Tears Go By, Hong Kong Express, Happy Together, Angeli perduti, e poi successivamente In the mood of love e 2046 (quest'ultimo è stato una mezza delusione), hanno significato anche la scoperta di una nouvelle vague ad Hong Kong.
My bluberry nights
non è un film bello come i precedenti. Wong, oltre ad indugiare in uno stilismo che sembra farsi sempre più maniera, ha perso soprattutto la leggerezza, quella che faceva di un film semplice come Hong Kong Express un’opera delicata ed emozionante. Tuttavia vorrei difendere My bluberry nights, anche solo per partito preso, perché lo considero migliore di 2046 (almeno non soffre di decostruzionismo spinto) e perché esso nasconde più doti di quante ne mostri. La mia recensione sul film uscirà a breve su drammaturgia.it (appena sarà ripristinato un server andato distrutto) e qui vorrei dare solo qualche accenno.
My bluberry nights è un road movie intimistico, tutto girato in interni, che ancora una volta conferma come non si possa andare da nessuna parte: l’unico viaggio che oggi possiamo fare è quello del nostro modo di vedere. Elisabeth, la protagonista, diverrà una spettatrice, degli occhi che guardano: le cose accadranno ad altri, fuori da lei.
La figura retorica del film di Wong è ancora una volta il close-up, il primo piano ravvicinato, sia sugli oggetti (il dolce che nella prima inquadratura diventa un amplesso di colori), sia sui volti (il bacio dei due protagonisti), ma anche sul tempo (l’uso del ralenti, che dilata ogni secondo). La stessa immagine, vista da vicino, da più punti di vista, e rallentata, si slabbra, perde i confini e si mostra per quello che è: un guscio vuoto che non racchiude niente.
I personaggi del film sono spesso visti attraverso qualcosa, uno schermo, dietro una vetrina su cui si riflettono le luci delle insegne, attraverso l'occhio freddo delle telecamere che riprendono l'interno del locale. I personaggi a loro volta guardano qualcosa che spesso sfugge, ma che è, in genere, un fuori campo che noi non vediamo e di cui cogliamo solo qualche segno, una strada, un semaforo, un treno che passa.
Fatto della distanza che intercorre fra i personaggi e i loro sguardi, My Bluberry Night è un film nostalgico,
una elegante e raffinata mise en abyme, in cui quello che si desidera e si cerca, alla fine, è il cinema.
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mercoledì 2 aprile 2008

Il cacciatore di aquiloni, una lettura rivelatrice

Il cacciatore di aquiloni è un film deludente: della storia dei due bambini e dell’Afghanistan che ha reso celebre il libro di Khaled Hosseini rimane la scorza esteriore, vuota. Dal punto di vista filmico il ricorso a qualche banale espediente visivo e drammaturgico tenta di mascherare una palese mancanza di idee.

Amir e Hassan sono due ragazzi cresciuti insieme durante gli anni settanta a Kabul, quando l’ Afghanistan non era ancora un paese devastato dalle guerre. Amir è il figlio di un ricco vedovo, Baba (ben interpretato da Homayoun Ershadi, capace di distinguersi rispetto agli altri attori), facoltoso progressista che vive all’occidentale nella sua villetta e che può permettersi di girare con una Ford Mustang. Hassan, di etnia hazara, sciita, è figlio del domestico (almeno così sembra fino all’agnizione finale). Mentre Amir attende a una educazione prestigiosa, impara a scrivere e a raccontare storie, Hassan è un analfabeta dotato però di grande intuito e spirito di osservazione. Hassan è devoto al suo amico-padrone Amir, e sarebbe disposto a fare qualunque cosa per lui. Il rapporto tra i due si incrina quando Hassan viene brutalmente sodomizzato da un gruppo di ragazzini, e Amir resta impotente ad assistere alla scena. I due si separeranno e l’invasione del paese da parte dei russi li allontanerà ancora di più. Amir andrà a vivere insieme al padre negli Stati Uniti, ma, una volta adulto, tornerà a Kabul per ritrovare il figlio di Hassan e portarlo con sé in America. [Continua...]

Il film bene evidenzia quale lettura de Il cacciatore di aquiloni è alla base del successo del libro. Una lettura pronta a dividere i buoni dai cattivi (i russi e i talebani - i mostri malvagi - da una parte, gli americani liberatori e magnanimi dall’altra), i giusti dai disonesti (Amir e Hassan contro i bulli prepotenti), che tende a indicare alcuni valori come assoluti rispetto ad altri (l’occidente resta il punto di arrivo, il fine che giustifica i mezzi). Una lettura banalizzante che appiattisce la storia contraddittoria di un paese flagellato da anni di guerre in poche immagini (la distruzione operata dai russi, gli alberi tagliati, le rovine del paese distrutto, la lapidazione delle donne). Una lettura, infine, che propone più consolazioni che scoperte, che cerca conferme alla propria idea di partenza, che non vuole mettere in crisi nulla, né delle convinzioni, né dello sguardo sulle cose. La sodomizzazione di Hassan doveva significare quella di un intero paese, in cui la comunità internazionale rimaneva a guardare, senza intervenire, complice del massacro, ma nel film diviene un atto brutale compiuto da un gruppo di bulli. Se il discorso politico è banalizzato, il senso di colpa di Amir per non aver avuto il coraggio di restare nel suo paese resta l’unico collante della storia. Un senso di colpa che, reso universale e condivisibile da tutti (e da ogni religione), anche questo alla fine si stempera in spire rassicuranti (l’impotenza non solo psicologica ma anche fisica di Amir è solo accennata): Amir salvando il figlio di Hassan scoprirà e salverà se stesso.

Alla fine il Il cacciatore di aquiloni è un film sull’amicizia, con qualche caduta strappalacrime e qualche bella immagine di aquiloni che ruotano e volteggiano sullo schermo, come degli innocui caccia americani.
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martedì 1 aprile 2008

30 giorni di buio: dieci alle elezioni

30 giorni di buio

Finalmente ho capito qual è la metafora del film 30 giorni di buio (un horror senza pretese uscito a febbraio e prodotto da Sam Raimi, in cui un gruppo di vampiri attacca gli abitanti di una cittadina dell’Alaska che durante l’inverno rimane un mese senza sole): quella dei trenta giorni preelettorali, quando i politici si trasformano in specie di vampiri, eleganti e impeccabili visti da lontano, mostri famelici e deformi appena si avvicinano, pronti a tutto per assicurarsi il voto di cui si nutrono.
Nel nostro caso la corsa all’ultimo voto è già iniziata. Rimangono solo dieci giorni di buio prima delle elezioni. Ma in questo periodo i vampiri-politici hanno ancora più fame. Non si fanno scappare nessuno. Colpiscono chiunque, basta che respiri. Tendono tranelli. Riescono a confondere i polsi più fermi, i sostenitori più convinti. Meglio dunque nascondersi, non muoversi e aspettare il giorno del voto, in silenzio. [Continua...]
I vampiri-politici sono in continuo movimento, non dormono, si spostano da una città a un’altra con grande velocità. Non conoscono limiti e barriere. Si spingono fino negli angoli più angusti. Alla ricerca di qualche italiano all’estero, toccheranno le regioni più remote. Dall’America all’Australia, dalla Siberia fino alle zone antartiche ci saranno figli di figli di italiani da stanare e da convincere. Nessuno ne uscirà incolume.
Non resta che resistere e aspettare.
Quando la luce dei risultati elettorali li colpirà alcuni saranno inceneriti all’istante, altri torneranno ad assumere sembianze umane e a svolgere il loro mestiere. Tuttavia è già successo in passato che qualche individuo maturi la capacità di restare vampiro anche alla luce del sole, e, protetto da una rete di cittadini complici, possa continuare indisturbato a spillare il sangue dei malcapitati.
p.s. Un grazie agli amici che mi hanno fatto vedere questo film illuminante...
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