venerdì 28 marzo 2008

La volpe e la bambina: breve stroncatura

Quanti danni può fare una bambina che ha intenzione di addomesticare una volpe selvatica e farla diventare la propria amica? Questo il tema centrale del film La volpe e la bambina di Luc Jacquet. Dal regista de La marcia dei pinguini un film di finzione attraversato da un moralismo a tratti imbarazzante. Nella storia del piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry era la volpe a chiedere “Mi vuoi addomesticare?”. Qui è la bambina che si è messa in testa di addomesticare la volpe, a costo di rompersi una gamba, di rischiare più volte la vita, di perdersi sola nel bosco. La bambina protagonista, capelli rossi, occhi chiarissimi, lentiggini, sguardo fisso e duro – Aidi, insomma, in versione panzer tedesco – si aggira da sola fra i bei paesaggi del Parco Nazionale d’Abruzzo alla ricerca di quella che ha eletto la “sua” volpe (a discapito della povera bestiola, inconsapevole). Che la bambina non sia italiana lo si capisce non solo dai tratti fisionomici, ma anche dal fatto che i genitori non appaiono mai, e la lasciano tranquillamente girellare solitaria per il bosco. [Continua...]

Titù, questo il nome dato alla volpe, condurrà la bambina in un mondo affascinante e allo stesso tempo terribile, nelle parti più misteriose della boscaglia, nel fitto degli alberi, nelle grotte, favorendo l’incontro con tassi, ricci, ranocchie, insetti, lupi, perfino un orso. Le immagini dell’incontro della bambina con la natura sono la parte salvabile del film. Il resto, con la pleonastica e a tratti risibile voce narrante (niente da eccepire dunque sulla scelta di Ambra Angiolini e le sue note affettate e sonnolente), con il suono che sottolinea in modo pletorico (come in un cartone Disney) ogni gesto dei protagonisti, con le trovate in salsa horror, con un intento pedagogico ostentato, è ben adatto a genitori e figli in cerca di anestetici visivi, dopotutto piuttosto innocui.

p.s. Per quanto mi riguarda il più bel film sulle volpi è un film sugli orsi...Grizzly Man di Herzog. Forse quello di Herzog non sarebbe adatto a un pubblico di bambini. Occorrerebbe che i genitori si mettessero accanto ai figli cercando di spiegare e di dare un senso alle immagini. È troppo, vero? Meglio La volpe e la bambina allora…
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Vogliamo anche le rose, approfondimento

Questo post è un po’ lungo, lo ammetto. Ma credo valga la pena approfondire il film di Alina Marazzi, distribuito in sala durante la settimana della festa della donna. Questo anche perché Vogliamo anche le rose cala a proposito in mezzo alle parole vacue dei politici, quando ancora una volta si riaffacciano i fantasmi di chi vorrebbe mettere in discussione la legge 194 in nome di un diritto alla vita che prescinde chi è in vita, chi la vita la dà. La presenza di un partito politico come quello proposto da Giuliano Ferrara deve far riflettere.
Il post è diviso in due parti: la prima è incentrata ad approfondire alcuni tematiche suggerite dal film, la storia della donna durante gli anni sessanta e settanta; la seconda parte è una critica al modo in cui la Marazzi ha utilizzato tutto il ricchissimo materiale che è riuscita a recuperare (efficientemente supportata) per il film. Il lavoro precedente della stessa regista, Un’ora sola ti vorrei, mi era parso da questo punto di vista, più riuscito. Buona lettura. [Continua...]

Il punto di vista contenutistico

Alina Marazzi in Vogliamo anche le rose racconta attraverso un caleidoscopio di immagini di repertorio il grande mutamento antropologico della donna italiana fra gli anni sessanta e settanta. Il filo conduttore è quello di tre diari privati, di tre toccanti testimonianze, in cui la dimensione privata diviene parte e sfuma continuamente nei fatti politici che scuotono l’Italia. Tre diari di una lucidità disarmante: il primo per la capacità di svelare in modo puntuale la repressione intima, prima di tutto sessuale, in cui si trova costretta la protagonista (1964); il secondo per come un trauma privato, l’esperienza terribile di un aborto clandestino (è il 1976 e l’aborto è illegale), riesce a mutarsi in un atto di presa di coscienza politica; il terzo perché già coglie, alla fine degli anni settanta (1977), il ripiegamento delle lotte nel “soggettivo”, nella coppia, nello stretto recinto dell’individuale.
Diversi nelle autrici, per gli anni e le situazioni a cui fanno riferimento, diversi negli scopi, questi tre punti di vista sono accomunati da uno stesso fermento di liberazione che, covato nell’intimità, sotto le coperte, fra le pareti di casa, cerca e trova una via di sfogo sulla scena politica e sociale, riversandosi nelle strade, nelle piazze, nelle manifestazioni. Il processo di mutazione che coinvolge il corpo e la mente della donna appare doloroso, irto di ostacoli e continui ripensamenti. In poco meno di un decennio alcune donne sono riuscite, nonostante tutto, a smarcarsi dai riquadri imposti dall’uomo e dalla società, a rompere con la figura della donna-“qualcosa”, sposa, madre, amante, prostituta, oggetto biologico, e hanno rivendicato il ruolo di soggetto, con una femminilità da scoprire e da costruire.
Nel film della Marazzi si comprende come questo mutamento è parte di un più grande sommovimento che ha tratto energia da profonde scosse a livello sociale ma anche e soprattutto economico. Una grande onda anomala si è propagata dal dopoguerra fino ad abbattersi sulle vecchie istituzioni alla fine degli anni sessanta. La società dei consumi, dei media, con i rotocalchi, le foto, le modelle, le attrici, i film, hanno veicolato una nuova immagine della donna. Immagine che si è andata componendo e arricchendo con quella promossa da femministe e non, attraverso l’istruzione, la cultura, la politica. Il sessantotto ha svolto in questo processo un ruolo centrale, di catalizzazione e punto di emersione del magma sotterraneo a lungo compresso. La violenza di quei giorni e degli anni successivi si spiega in parte con il desiderio di superare di colpo lo scarto che la società italiana aveva accumulato nei confronti dei cambiamenti in corso. Uno scarto che, per quanto riguardava la legislazione nei confronti delle donne, era vergognoso.
La trasformazione antropologica della donna è stata di natura politica, sociale, ma anche privata. I diari raccolti dalla Marazzi rappresentano una testimonianza importantissima di come privato e pubblico siano strettamente intrecciati. La scoperta che contraddistingue il primo diario e in parte i successivi è quella della sessualità. La ricerca del piacere, di un piacere che passa anche attraverso l'esperienza del corpo, diviene finalmente aspirazione non più repressa nella vita della donna. La donna come soggetto ha il diritto dovere di cercare il piacere e la felicità, non più quello di sacrificarsi in nome di un uomo, di una famiglia, della religione. La legislazione inizia a registrare questo spostamento: il divorzio (1974), la parità giuridica dei coniugi (1975), la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (1978). Ma si dovrà aspettare addirittura il 5 agosto 1981 per ottenere l’abrogazione del delitto d’onore e il febbraio 1997 perché la violenza contro le donne diventi reato contro la persona e non più contro la morale.

È facile notare come la situazione descritta in questo documentario, la rottura operata dalla donna nei confronti dei piccoli e grandi dogmi imposti dalla società, dalla tradizione, dalla religione, abbia comportato diramazioni differenti e imprevedibili, ma che si ripercuotono fino ai nostri giorni. L’intento della Marazzi è quello di portare a riflettere sul presente, di interrogarsi sulla condizione delle donna oggi. Le donne degli anni sessanta e settanta, siano esse femministe attiviste, o casalinghe devote, sembrano in entrambi i casi molto lontane dalla sensibilità odierna. Mi sembra di poter dire che la conquista di alcune fondamentali libertà, la rinuncia alla lotta contro le repressioni (ora di minore o diversa intensità e natura), ha provocato come contropartita il sorgere di una profonda insicurezza, in cui si dibatte non solo la donna odierna, ma gran parte della società, incapace di gestire quelle libertà raggiunte, schiacciata dal senso di colpa che ne può scaturire. Ritornare verso quello che si ritiene il luogo natio, la tradizione, come si sente proporre da più parti in queste settimane preelettorali, è una falsa soluzione, dato che la struttura della casa come della chiesa, per quanto solida possa apparire, è ormai corrosa dall’interno.

Il punto di vista filmico

La Marazzi si avvale di un materiale eterogeneo, ricco, stratificato, complesso, di grande impatto emotivo e visivo. Ma sull’uso non mi trova molto d’accordo. Fotogrammi di film privati, documentari, rotocalchi, copertine di riviste, fotografie, manifesti, le voci degli attori che leggono i diari, le musiche di repertorio, suoni sintetizzati: ne esce fuori un grande pasticcio in cui tutto finisce per essere irreparabilmente uguale, banale. Le parole dei diari, di grande intensità, vengono continuamente accompagnate da immagini dalla simbologia ridondante, piedi nudi che camminano sul ghiaccio, navi rompighiaccio che solcano il mare, oppure da immagini didascaliche che mostrano più o meno quello che già le parole suggeriscono. Sembra che l'autrice non abbia fiducia non solo nella forza evocatrice della parola, ma soprattutto nelle immagini e nell’immaginazione dello spettatore.
Eppure la stessa Marazzi ci aveva dato prova con il suo film precedente di una sobrietà e di una eleganza magistrale, nel suo “film di famiglia” Un'ora sola ti vorrei, in cui metteva in scena la storia tragica di sua madre. Lì il percorso scelto permetteva al film di prendere spunto dalla storia privata per poi innalzarsi a tragedia universale, non senza aver mostrato il grande sconforto della madre, la sua lotta disperata contro le ipocrisie del tempo, contro i pregiudizi, contro l'idea di famiglia borghese nella quale non poteva riconoscersi. In Un'ora sola ti vorrei la macchina da presa indugiava spesso sulle pagine del diario, sui segni grafici, sui documenti, riproponeva più volte lo stesso volto, la stessa fotografia (“Quale mistero racchiude un volto?” “È possibile cogliere la sofferenza attraverso l’immagine?” Erano alcune delle domande che il film suggeriva). Un’ora sola ti vorrei non si perdeva dietro la ricerca raffinata ma alla lunga stancante e pretenziosa del montaggio analitico di questa nuova opera.
Con Vogliamo anche le rose il legame fra le parole e gli avvenimenti mostrati, fra i ricordi privati e le manifestazioni pubbliche, fra le parate delle lesbiche i discorsi delle casalinghe, appare sfilacciato e poco comprensibile per chi non ha vissuto quegli anni.
È possibile ritrovare in un documentario costruito con materiale di repertorio un “occhio che guarda”, una visione personale? Certo, e anche la stessa Marazzi lo dimostra. Solo che l’occhio della Marazzi non ci permette né di riposare, né di guardare. È troppo affaccendato. Forse, mi viene da pensare, il materiale a disposizione della Marazzi era in questo caso eccessivo. Se avesse sacrificato qualcosa, il film avrebbe avuto un impatto maggiore, recuperando una più intensa tensione visiva. È facile fare gli Ziga Vertov sulla carta, più difficile esserlo veramente. Il rischio è quello di affondare in una pattumiera di immagini, senza uno sguardo che si interroghi sulle immagini e che le sappia indagare. Vogliamo anche le rose, assecondando questo linguaggio vuole parlare, alla fine dei conti, del presente, dello spaesamento contemporaneo, della perdita di identità nei confronti di un passato così vicino eppure già per molti versi irriconoscibile. Ma per fare questo occorre frapporre una distanza, uno schermo di immagini, rispetto a quello che si mostra.

Qui il sito del film www.vogliamoanchelerose.it
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mercoledì 26 marzo 2008

Mozzarella al cioccolato (o era diossina?)

In Biutiful cauntry c’è una immagine che mi ha colpito: l’arrivo di un addetto che preleva le pecore morte a causa dell’elevata concentrazione di cioccolato, molto maggiore rispetto ai limiti consentiti dalla legge. Nel furgoncino dove l'uomo getta i cadaveri delle pecore e degli agnelli si intravede anche una bufala. Probabilmente morta per lo stesso motivo: troppo cioccolato nel sangue. I pastori nel film raccontavano che i risultati delle analisi condotte sui loro animali, sulle pecore che vivevano accanto alle discariche, erano stati resi noti dopo otto mesi dai prelievi. In questo lasso di tempo hanno continuato inconsapevoli a mangiare la carne degli animali, a fare il formaggio, a vendere il latte. E non sanno quanto cioccolato è finito nel loro sangue. Dopo i risultati il gregge chiaramente è stato abbattuto, in via preventiva. E io dovrei fidarmi dei controlli che vengono fatti? Sapendo che fra prelievo e gli esiti delle analisi intercorre un tempo in cui gli animali sono considerati perfettamente sani? Quale rapporto di fiducia le istituzioni hanno costruito nei confronti di cittadini e consumatori sull'affare denominato "emergenza rifiuti"?
Per fortuna ci pensa D’Alema a rassicurarmi dicendo che (riprendo dal Corriere della Sera) «sono stati effettuati controlli su 132 produttori caseari e sono state rilevate tracce di cioccolato solamente in nove casi». Solo 9 su 132. Pochi, certo. Quasi il 3%. Anche 132 produttori non mi sembrano molti, sinceramente. Ma dopotutto non è che cioccolato, vero?
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However Italia

Oggi sul Financial Times c’è un articolo sull’economia europea (German, French business confidence surges). Germania e Francia stanno attraversando un momento positivo, che appare ancora più sorprendente date le turbolenze sullo scenario mondiale. Un inaspettato incremento del tasso di fiducia dei consumatori per tedeschi e francesi sottolinea la forza delle due principali economie europee, la capacità di sostenere la crisi proveniente dall’Atlantico. Ma l’Italia? Una nota significativa sul nostro paese chiude l’articolo: "Tuttavia, la prospettiva appare più depressa in Italia, dove il tasso di fiducia nei confronti dell’economia è sceso questo mese al più basso livello raggiunto in due anni"(*).
Cosa sarà? Le mozzarelle alla diossina, o Alitalia da salvare? No problem, baby. Per tutte le soluzioni si profila all’orizzonte una bella e allegra cordata dei soliti contribuenti.

(*) However, the outlook appeared much gloomier in Italy, where business confidence has fallen this month to the lowest level in more than two years, according to the ISAE think-tank.
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sabato 22 marzo 2008

Andare a vedere Vogliamo anche le rose

15/3/2008. Sabato sera. Un cinema del centro fiorentino. L’unico fra Firenze e provincia in cui proiettano Vogliamo anche le rose (documentario sulle rivendicazioni femministe tra gli anni sessanta e settanta). Il Fulgor: cinque sale e una facciata da Odeon americano. Ma il west è lontano, qui nella teca del rinascimento. Il cinema si trova in borgo Ognissanti, via acquitrinosa che dal ponte alla Carraia conduce fuori dal centro, verso i viali, verso quel bastione solitario a guardia della periferia di automobili e cemento armato che si chiama Porta al Prato. Borgo Ognissanti, via della Firenze bassa, viva e multietnica, è incastonata come un tumore nella città in svendita dei propri reperti autoptici. [Continua...]

Davanti all’entrata del cinema ci sono gruppi di ragazzini, coppiette e qualche spettatore accompagnato dal telefonino. Molti sono venuti per vedere Grande, grosso e verdone. Lo proiettano nella sala 'mercurio', la più ampia, 270 posti.
Vogliamo anche le rose è proiettato nella sala venere, quella più piccola, 99 posti di passione cinematografica. È quel genere di sala in cui entra solo un certo tipo di pubblico. Molti non ci hanno mai messo piede. O fuggono appena entrati.
È l'unica al piano superiore. La 'soffitta', viene da pensare. Mentre mi incammino sulle scalette sento dietro di me lo sguardo dei ragazzini: mi compatiscono e, allo stesso tempo, mi temono. Come un animale estraneo che tutto sommato rende l’ambiente più caratteristico.
Noto che nel pomeriggio, prima di Vogliamo anche le rose, nella stessa sala era proiettato John Rambo. Peccato non essere arrivato nel momento di avvicendamento fra i due pubblici. Chissà quali occhiate si sono scambiati, scrutandosi e disprezzandosi reciprocamente. Maschilisti contro femministe. Etero contro omo. In entrambi i casi, più che altro, un pubblico di nostalgici, ma di due decenni in contrapposizione fra loro: ottanta contro settanta.
Arrivo prima della fine dello spettacolo e guardo il pubblico uscire. Sono proprio curioso di vedere gli spettatori fiorentini di Vogliamo anche le rose. Mi piacerebbe scoprire insieme madri e figlie. Nonne e nipoti. Sessantottine sessantenni e ragazzine quattordicenni a braccetto, insieme. Con la possibilità di un confronto generazionale in sala. Invece è sempre il solito pubblico. Autoreferenziale. Me compreso. I ragazzetti restano giù affacciati a Grande grosso e verdone o 10.000 a.C. I genitori nella piccola sala a vedere il cinema d’essai. Su venere stasera, non c’è nessuno che abbia meno di venticinque anni. Dovranno costringerli, gli studenti, a vedere Vogliamo anche le rose. Con programmazioni riservate alle scuole. Non è già un fallimento?
Ma a poco a poco capisco che c’è qualcosa di diverso nel pubblico. Ci sono molte coppie di lesbiche. Non ricordo molti casi simili, se non proiezioni in circoli dell’Arci o nel freddo di qualche centro sociale. Mi sorprendo a sorprendermi. Chissà cosa hanno pensato quei ragazzini quando hanno visto salire le lesbiche. Forse la cosa li ha incuriositi. Io mi sento inorgoglito di appartenere al club delle ultime sale, in cui la divergenza fra pubblico e privato è più sottile e sfumata. Questa sale sono specie di privé nel corpo del cinema. Un prolungamento del divano di casa.
Il pubblico della sala venere si disperde nei pochi posti. Anche non volendo gli spettatori finiscono per ritrovarsi uno accanto all’altro. Alcuni si sfilano le scarpe, altri si allungano su due o tre poltroncine. Il silenzio rimane assoluto e costante. Nessuno mangia. Nessuno fiata.
Il film è già iniziato quando entra una coppia (etero). Si capisce da come sono vestiti che hanno sbagliato sala. Forse pensavano di vedere un film romantico. Ho notato nel loro volto una sfumatura di disprezzo e paura, quando entrando hanno intravisto la sala e il suo pubblico. Dopo pochi minuti ridacchiano, forse per cercare di distendere la tensione. Non sanno che in questo modo aumentano l’ostilità nei loro confronti. Dopo qualche minuto iniziano a parlottare fra loro, come se si trovassero nel multiplex da cui certamente provengono. Qui non hanno cittadinanza. È la sala unita che protesta. «Chi sta parlando? » - urla qualcuno dal fondo. «Basta, silenzio» - li fa eco un’ombra dall’altra parte della sala. Coro di approvazione. Ai due non resta che scappare. Quando escono posso sentire la sala venere emetttere un sospiro di sollievo, all’unisono. Finalmente se ne sono andati. L’ordine è stato ristabilito.
La sala torna a vedere nel suo modo il suo film.

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giovedì 20 marzo 2008

Onora il padre e la madre: il fallimento dei padri

La storia di Onora il padre e la madre di Lumet, con i due fratelli la cui condotta di vita è completamente divergente, contraria, rispetto a quella dei propri genitori, mi ha riportato alla mente lo scontro fra il vecchio poliziotto e il nuovo killer senza traccia di umanità di No Country for Old Man.
Anche Lumet, come i Coen, sembra interessato a raccontare la comparsa di una nuova tipologia di persona che ha invaso l’America e il mondo: “i barbari” (per riprendere una comoda definizione), coloro che non hanno più legami con i valori della tradizione. In Onora il padre e la madre si assiste alla messa in scena di uno scontro generazionale, fra la cultura del padre e quella dei figli. Il padre (interpretato da Albert Finney, figura che lo spettatore tende ad associare, e non è un caso, al padre sognatore, all’Ed di Big Fish) rappresenta la cultura della fatica, della tenacia, dei soldi ottenuti lavorando una vita, dell’amore per la moglie che rimane intatto anche nella vecchiaia; i figli, all’opposto, tratteggiano dei personaggi corrotti e vigliacchi che inseguono senza scrupoli soldi, successo e benessere: sono la degenerazione fatta carne e sangue del mondo dei padri. [Continua...]

Se il tema può risultare in fondo simile, il modo in cui i Coen e Lumet lo affrontano è completamente diverso. I Coen sono dei barbari che guardano altri barbari, ne sanno prevedere le mosse, sfruttare le loro stesse tecniche. Lumet appartiene ad un’altra generazione. Deve affidarsi pienamente alle regole della composizione, che non infrange se non in superficie. Ma ha un’arma dalla sua parte: un’ironia caustica e amara, un cinismo freddo ma allo stesso tempo canzonatorio che, posto fra lo sguardo della m.d.p. e i suoi personaggi, gli permette di recuperare un adeguato distacco.
È con questo distacco che Lumet riesce ad affrontare un tema delicato e complesso come quello della crisi dell’istituzione famiglia. Egli riesce a parlare non solo della degenerazione dei figli ma anche del fallimento dei padri, di quella generazione a cui Lumet appartiene. In Before the devil Know You’re dead, come in ogni tragedia che si rispetti, i figli devono scontare le colpe dei padri. Sono quest’ultimi i primi caduti nella trappola del sogno americano. Hanno convinto i propri figli che essere ricchi, belli e felici, era l’unica possibilità data, un dovere morale. Il padre scopre la dura realtà proprio parlando a un commerciante di gioielli, un vecchio ebreo cinico e spietato, che ha la sua stessa età. È lui a rivelargli che il mondo è un posto malvagio. In cui alcuni fanno i soldi, mentre altri, semplicemente, crepano. [Continua...]
Before the devil Know You’re dead mette in scena non tanto la rovina di una famiglia, quanto quella di una società. Una società che ha perso – come direbbe Umberto Galimberti – la disposizione ad educare. Che si è limitata a pro-curare qualcosa, invece che a curare. Che non ha educato all’accettazione incondizionata dell’altro. La formula enunciata da Sant’Agostino, “volo ut sis” (voglio che tu sia quello che sei), è rimasta lettera morta.

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lunedì 17 marzo 2008

Garage Bolzaneto: il Garage Olimpo italiano


Garage olimpo (1999) è un film che difficilmente si scorda. Durante gli anni settanta, a Buenos Aires, mentre la città continua inconsapevole i suoi affari, alcuni attivisti militanti o semplici contestatori vengono rapiti e portati in un garage dove sono torturati. Maria, la protagonista, è una di queste persone. Fra i suoi torturatori scopre un ragazzo che in passato l’aveva corteggiata. Vittima e carnefice si trovano uno di fronte all’altro, sul ciglio di un orrore che non sanno spiegarsi. Garage Olimpo è un film crudo e a tratti disperato sulla tragedia dei desaparecidos argentini, persone innocenti non di rado fatte sparire, gettate in mare da un aeroplano. Il regista è Marco Bechis, nato in Cile, ma poi naturalizzato cittadino italiano. Nel film raccontava la sua esperienza personale di quando era stato sequestrato e detenuto per quattro mesi in un carcere clandestino.

C’è un garage olimpo tutto italiano che aspetta di essere raccontato ed è quello della tragedia di Bolzaneto. Il nostro Abu Ghraib. L’articolo di Giuseppe d’Avanzo su La Repubblica di oggi mi sembra un ottimo spunto. La notte della democrazia, ma forse anche la notte della ragione: così si potrebbe intitolare un film su Bolzaneto. Quello che più colpisce di questa storia, ben raccontata dall’articolo di d’Avanzo, è l’ipocrisia, la faciloneria – tutta italiana – con cui si coprono e si dimenticano gli orrori della nostra storia. Quel sentimentalismo ruffiano che ha trasformato garage bolzaneto in un tempio della democrazia. Con opera di trasformismo si è proceduto ad eliminare ogni traccia di quei giorni. La caserma è stata ristrutturata, le stanze della tortura sono diventate sale per lo studio intitolate a uomini che si sono battuti contro le deportazioni. Tutto per far sembrare quei giorni una parentesi. Da chiudere e dimenticare in fretta. Quello che mi stupisce del racconto non è solo la violenza assurda dei tutori dell’ordine, ma soprattutto l’assoluto silenzio di dottori e infermieri. Come hanno potuto assecondare le torture inflitte? I poliziotti sono stati delle bestie, ma quei dottori non sono nemmeno uomini. Sono tecnici specializzati nel trattamento dei corpi. Non hanno personalità, né umanità. Sono ancora una volta la presenza oscura e silenziosa del male e della sua perniciosa banalità. Ce ne è abbastanza per un film?

Qui di seguito riporto i passaggi dell’articolo che più mi hanno colpito.
(corsivi miei) [...]

«[...]Tortura. Non è una formula impropria o sovratono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano. [...]

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa “degli altri”, di quelli che pensiamo essere “peggio di noi”. Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
[…]

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). [...]

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatrè la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza.

[...]Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". [...]

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. [...]» di Giuseppe D'Avanzo, La Repubblica.it, http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/cronaca/g8-genova-2/notte-democrazia/notte-democrazia.html

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Onora il padre e la madre: recensione

Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke

Onora il padre e la madre è un bel film, molto più crudo e spietato di quanto mi potessi aspettare dall'ottantaquattrenne Lumet.
Vi riporto parte della recensione al film che ho scritto per drammaturgia e che ritrovate integralmente qui. Seguiranno brevi approfondimenti su alcuni temi...

Lumet realizza un film che è costruito come un meccanismo di precisione, in cui ogni ingranaggio si incastra in modo puntuale sull’altro. Per far questo si serve della struttura del giallo e della tragedia come colonna vertebrale, e di ogni sequenza e inquadratura come di un organo con il quale provocare un movimento ritmico e ricorrente. Ma rispetto a film del passato come Serpico o Quel pomeriggio di un giorno da cani, il regista ottantaquattrenne compone una discesa verso l’inferno progressiva e inesorabile, che non ammette scappatoie, salvezze, facili ironie.
La leva che mette in funzione il meccanismo è solo apparentemente un fatto minimo, banale: una rapina finita male in una gioielleria di periferia. L’anziana commessa riesce ad uccidere il rapinatore, ma a sua volta è ferita a morte. Questo evento è il nodo centrale attorno al quale si dispiega il racconto. Un atto che trascinerà nel baratro la vita di due fratelli e dei loro familiari. Una serie di flashback e flashforward a partire dalla rapina ci conduce dietro le pieghe dell’apparenza. Veniamo così a sapere, tassello dopo tassello, che quella gioielleria era proprietà dei genitori di due fratelli; che sono stati questi ultimi a pianificare la rapina; che la donna ferita a morte è la loro madre. Il film ci svela come l’effetto domino abbia avuto il suo avvio molto tempo prima della rapina, annidato nell’oscurità dei rapporti famigliari, e che le conseguenze catastrofiche non tarderanno a sopraggiungere. [Continua...]

Una cruda scena di sesso fra marito e moglie in vacanza in una piccola camera d’albergo a Rio: questo è il prologo di Before the devil Know You’re dead. Da una parte e dall’altra gli specchi rimandano l’immagine dei due, quasi intrappolati nella loro trivialità, nel godimento di un’effimera felicità carnale, destinata a svanire al sorgere del sole. Già domani sarà il momento di tornare a New York, di indossare nuovamente la maschera consueta, quella di una coppia che non esiste più, minata all’interno da una fitta rete di bugie e tradimenti.
La specularità, la ricerca di una perfetta simmetria, già evidente fin dalla scena del prologo, è la figura retorica che dà forma al film. Una specularità che coinvolge sia il racconto, con l’alternarsi dei vari punti di vista sullo stesso evento, sia lo stile, con le ricercate geometrie della macchina da presa, nei continui campi/controcampi, nei non rari scavalcamenti di campo. Lo sguardo di Lumet diventa freddo e rigoroso, come quello di un entomologo. Ma solo in superficie, perché quello che gli interessa è invece mostrare la parte oscura e passionale che si cela nei suoi personaggi, soprattutto nei due protagonisti, nei due fratelli, Andy e Hank.
Quello che i protagonisti non sanno è che il diavolo si è seduto accanto a loro, e si sta divertendo perché sa già che fine faranno. Il mondo è un posto pericoloso. Qualcuno riesce a farci i soldi. Altri, semplicemente, ci crepano. Non esiste nessun personaggi nemmeno lontanamente positivo in questo film. Nemmeno fra quelli minori. Non esiste nessuno di loro che non abbia qualche colpa da scontare. La dea della giustizia, Nemesi, si abbatterà su tutti i componenti della famiglia, e in modo più feroce col padre, il quale dovrà pagare il prezzo più alto per riportare l’ordine finale.
[Continua...]
Before the devil Know You’re dead mostra una grande sfiducia nell’uomo. Basta limitarsi ad osservarlo un po’ più a lungo perché si tradisca e si mostri, spesso, per quello che è realmente, un essere doppio e terribile che nasconde segreti inconfessabili. La condizione dei protagonisti è quella di rimanere schiacciati in fondo alle stanze, negli uffici squallidi, negli appartamenti freddi e desolati. Sono i personaggi stessi che spesso vengono verso la m.d.p., per mostrare il loro sconforto e cercare pietà.
Una delle scene più belle del film che ben testimonia di questa condizione è certamente il lungo piano sequenza in cui Andy entra nell’appartamento in un grattacelo, per comprare e iniettarsi una dose di eroina in tutta tranquillità. Mentre il pusher, poco più che adolescente, gli prepara la dose, Andy, il manager fallito, si aggira fra le stanze raffinate e asettiche (fashion) dell’appartamento, seguito dalle musichette del cartone animato che provengono da un enorme schermo al plasma attaccato alla parete. Ogni elemento, la musica, i colori, gli oggetti, stride con la condizione del personaggio, e ci permette di cogliere la sua più assoluta solitudine. Fuori dalla finestra è la città che lo guarda, indifferente al suo dramma.

Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke
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giovedì 13 marzo 2008

Note (polemiche) politiche

Giovanni Sartori ha pubblicato oggi sul Corriere un caustico editoriale, "Democrazia al verde". Nell'articolo si passa dai temi della politica italiana a quello, caro al giornalista e in parte al sottoscritto, del riscaldamento ambientale e del fabbisogno energetico. Non è possibile affrontare i problemi economici italiani se non ponendoli su una scala europea ma anche, più in generale, planetaria. Ed è la politica che per prima dovrebbe farsi carico di questa responsabilità. Quale politico abbia realmente intenzione di farlo, beh, questo è un altro mistero italiano. [Continua...]

Sartori elenca i segreti di pulcinella dell’Italia: quei macro problemi ben conosciuti da tutti che gravano sulla nostra crescita e sviluppo. Temi che, piuttosto ironicamente, sembrano eclissarsi nella campagna elettorale. Il motivo per cui non sono sulla bocca dei politici o lo sono soltanto in modo vago, è, io credo, la loro mancanza di attrazione, di “appeal” (per usare un termine orribile ma che rende bene l’idea del marketing elettorale cui siamo sottoposti): la sfiducia sia da parte degli elettori che dei politici di una loro possibile soluzione.
I problemi descritti da Sartori sono: debito pubblico, mafie, infrastrutture. A queste vere palle al piede della mancata crescita italiana si aggiunge la partita ecologica: «l’incombente disastro climatico» (uso parole non mie per non sembrare un disfattista fin da subito), l’approvvigionamento energetico e la scarsezza delle materie prime. Come faremo ad affrontare sfide così vaste e inquietanti come quelle che si prospettano all’orizzonte, in questa situazione di depressione e lento declino dell'Italia?
In questo senso i segreti di pulcinella di cui parla Sartori e le vaghe risposte prospettate dalla politica restituiscono ancora una volta l’immagine di un paese abbattuto, intento a volgere la testa al passato e a fuggire di fronte al fantasma del suo stesso riflesso. La politica deve dare a un paese e alle persone un sogno, un progetto ambizioso. Ma realistico. Non bastano più le barzellette e i proclami popolustici. Ora fra i ceti più poveri non ci sono più soltanto i meno istruiti e gli ingenui.
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mercoledì 12 marzo 2008

Che film avrebbe fatto Pasolini sull’emergenza rifiuti?


Il cambiamento del modo di produzione post-industriale non ha comportato soltanto la proliferazione di una enorme quantità di beni superflui, che si gettano prima che siano stati consumati, ma ha generato quello che Pasolini chiamava una nuova cultura, una modificazione antropologica dell’uomo. Pasolini riteneva che tra il 1961 e il 1975 si fosse realizzato un «genocidio culturale»: il mondo antico e contadino, depositario di valori assoluti, universali, garante della tradizione, era stato cancellato.
Biùtiful cauntri ha il merito non solo di documentare questa distruzione, ma di mostrarci anche fino a che punto è stata spinta: quel mondo di pastori o agricoltori che da generazioni allevano pecore o coltivano ortaggi e frutta, quel mondo refrattario all’ammodernamento, è stato inglobato dalla immondizia. Qualcosa è rimasto, ma si tratta soltanto di uno scarto destinato a sparire, a essere incenerito. Mondi diversi si trovano accomunati da una prossimità non solo fisica, diventano parte di un unico sistema di senso. [Continua...]
Pasolini si era reso conto che i rifiuti, la “immondezza” erano uno dei segni più evidenti del linguaggio delle cose, dell’orrore e della devastazione di una cultura. Era nei rifiuti, tuttavia, che alcuni personaggi delle sue opere conseguivano una nuova consapevolezza e recuperavano l’idea del bello: come i personaggi di Che cosa sono le nuvole?, le due marionette Jago-Totò e Otello-Davoli che erano gettate alla fine dello spettacolo in discarica, e solo allora, fuori dal teatro, vedevano le nuvole e aprivano gli occhi sulla «straziante bellezza del creato». E già in Accattone, nel primo film di Pasolini, il protagonista si innamorava di una donna che lavorava fra i rifiuti, riciclando le bottiglie di vetro per poche lire al giorno. Lo stesso autore aveva realizzato anche un film rimasto inedito sul mondo dei netturbini romani, scoperto da Mimmo Calopresti fra gli scaffali dell’Archivio del movimento operaio e democratico e intitolato Come si fa a non amare Pier Paolo Pasolini. Appunti per un romanzo sull'immondezza.
La lezione di Pasolini è certo ben presente agli autori di Biùtiful cauntri e in particolare ad Andrea D’Ambrosia che aveva realizzato un documentario sul poeta friulano intitolato Nel Paese di Temporali e di Primule. Ma questa viene approfondita solo in parte. Solo in parte si intuisce che i rifiuti sono un fenomeno dietro un altro fenomeno. La presenza orribile della post modernità è diventata il linguaggio delle cose e per narrarla occorre una lingua adatta, appropriata.
Occorrerebbe ritrovare chi si assume la responsabilità intellettuale di raccontarci questo genocidio, di scavare nelle profonde ferite della nostra storia recente, andando oltre la denuncia, l’attualità o il dato allarmistico e scandalistico. Occorrerebbero autori e registi capaci di offrirci una interpretazione poetica di questo dramma.
Ripartire dal documentario mi sembra un piccolo passo in questa direzione, ma a patto che esso si faccia portavoce, in conclusione, di una visione del mondo e del cinema insieme.
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martedì 11 marzo 2008

Biùtiful cauntri


Sabato sera ho dovuto attraversare la città per andare a vedere, nell'unica sala in cui era proiettato, Biùtiful cauntri. Ma ne è valsa la pena. Il film dei tre autori Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio, Peppe Ruggiero è un bel colpo allo stomaco, che non lascia speranze. E' un viaggio al termine dell'ipocrisia e della stupidità, all'interno del cuore di tenebra che si nasconde in Italia. L'emergenza dei rifiuti Campana non è un problema localistico, ma riguarda tutti gli italiani: è il sintomo più evidente di una tumore nato all'interno della società stessa e a cui occorre dare risposta. [Continua...]
Biùtiful cauntri ci conduce all'interno delle profonde ferite che solcano un paesaggio e la sua gente, in quello che è un vero e proprio "rimosso" istituzionale, politico e civile, e che spesso rifiutiamo ipocritamente di volere vedere.
Andare a vedere il film in sala è dunque un atto di partecipazione attiva alla denuncia, che risponde a un'esigenza civica. Il documentario ci mostra l’interno della discarica ritenuta a norma, che nasconde un vero e proprio lago di percolato, il liquido velenoso che uccide i terreni e filtra nelle falde. Racconta come la camorra abbia permesso alle industrie del nord di sversare in modo indiscriminato materiale tossico ottenuto da scarti di lavorazione di aziende chimiche, siderurgiche, trasformandolo in compost per l’agricoltura. Ma parlando di Biùtiful cauntri non vorrei parlare solo del tema dei rifiuti, ma anche del documentario, non solo di cosa ci mostra, ma anche di come lo fa.
Quando si limita a denunciare, assecondando un certo linguaggio televisivo, con gli inserti video della polizia, l’audio delle intercettazioni, le interviste a tecnici e funzionari capaci di nascondersi dietro le solite parole sacco che più che svelare nascondono ("la camorra", "i politici corrotti", "la massoneria deviata"), il film non ci dice molto di più di quanto abbiamo visto in altre occasioni, nei servizi giornalistici televisivi e su internet. Ma c’è una parte del film che abbandona la denuncia per limitarsi a mostrare la fine di un mondo che è stato spazzato via dalla società dei consumi, un mondo di cui è rimasto lo scarto, che è stato trasformato in rifiuto. E' questa la parte più impressionante e sconvolgente del film: quando ci conduce dentro le terre, nelle case, nelle vite di chi ha visto crescere accanto alla propria abitazione o nei propri campi una montagna di rifiuti pronta a schiacciarli.
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lunedì 10 marzo 2008

Biùtiful cauntri: trailer

Forse qualche anno fa c’era ancora chi era convinto che l’Italia fosse un paese bello, beatiful cauntry, appunto. Basta essere tornati da un viaggio di qualche giorno all’estero, cosa che costa ormai pochissimo e che i giovani fanno sempre più spesso, per rendersi conto che la realtà è un’altra.
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sabato 8 marzo 2008

Cine-poemi: l'Atalante e l'Andrej Rublëv al Cuc

L'Atalante di Jean Vigo: il sogno ad occhi aperti di Jean

Giovedì sera ero al Cuc (Centro Universitario Cinematografico) di Firenze. Dovevo presentare due film che possono essere considerati fra i miti fondatori della storia del cinema: L’Atalante di Jean Vigo e l’Andrej Rublëv (la ë in russo si legge jo) di Tarkovskij. Questo accostamento mi sembra uno dei più interessanti e riusciti della programmazione del Cuc. Qui di seguito riporto alcuni appunti che credo possono essere utili per gli studenti, per le loro relazioni e per offrire qualche spunto di riflessione. Data la lunghezza ho scelto di pubblicarli in tre post separati. Questo contributo non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, originale, omogeneo o di avere valore accademico. Vuole solo essere una scusa per parlare di cinema.
Si potrebbero elaborare interessanti e molteplici confronti fra questi due film, recuperando analogie, sfumature, contrasti e parallelismi. Il rischio sarebbe tuttavia di pervenire a letture in cui l’interpretazione oscura completamente l’opera: il film sparirebbe davanti agli occhi dello spettatore per lasciare solo l’immagine dell’interprete. Certo esiste fra questi due film più di un fattore sostanziale che li rende accostabili, pur nella differenza di scelte stilistiche e poetiche, del quadro storico e culturale nel quale si inscrivono. [...]

C’è una termine usato per definire alcuni film, spesso impiegato a sproposito con altezzosa prosopopea da qualche critico accigliato, magari al fine di relegare alcune opere in reliquari inaccessibili, che risulta particolarmente appropriato per accomunare l’Atalante e l’Andrei Rublëv: è il termine “cine-poema”. La parola deriva dal russo Kinopoema ed era servita a Dziga Vertov per definire alcuni dei suoi “cinegiornali”, film sospesi fra riproduzione del reale e pura ricerca estetica, allo stesso tempo documentari e poesie. Il riferimento a Vertov e allo sperimentalismo visivo degli anni venti non è casuale, dato che in modi diversi, sia Vigo che Tarkovskij hanno fatto del confronto e dialettica con le avanguardie uno degli elementi centrali della loro riflessione e della loro poetica.
In entrambi i film ci troviamo di fronte a due poemi in forma filmica, alla trasposizione in immagini del pensiero poetico e filosofico degli autori. Inutile dire quanto questo tipo di cinema sia lontano da quello a cui siamo normalmente abituati come consumatori di film. L’Atalante di Vigo può essere paragonato a un idillio, un breve componimento lirico improntato a una certa serenità, un episodio amoroso in versi che si svolge in una atmosfera sognante e sentimentale. Nel caso dell’Andrej di Tarkovskij ci troviamo di fronte ad un’opera di notevole estensione e di solenne intonazione epica. In entrambi i casi il linguaggio cinematografico - il modo con cui si rappresenta e non solo ciò che si mostra - diviene non solo una scelta estetica, ma una vera e propria presa di posizione sulla realtà, una posizione politica e morale.


L'Atalante di Jean Vigo


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giovedì 6 marzo 2008

Persepolis, la poesia, la realtà.

In questo cartone animato fatti reali e fantastici sono intimamente connessi: in questo modo Persepolis raggiunge un realismo che un documentario non riuscirebbe a ottenere.


Persepolis è un cartone animato insolito e pregevole, che non lascia indifferenti. La forma è semplice ed efficace, risultato di un lavoro di sottrazione che raggiunge l’essenziale nel disegno bidimensionale, in una gamma di colori ridotta al contrasto tra bianco e nero. Il contenuto è complesso e articolato, una storia autobiografica che racchiude trent’anni di vita dell’autrice, Marjane Satrapi, quella della sua famiglia e di un paese, l’Iran. Su questo contrasto fra contenuto e forma, fra leggerezza del tratto e drammaticità degli eventi (e viceversa), si condensa una tensione che fa di Persepolis un’opera attraente, in cui il fantastico e il fiabesco convivono sullo sfondo di reali avvenimenti storici, di autentiche rivendicazioni sociali. [...]

Il film di Marjane Satrapi, realizzato in collaborazione con Vincent Paronnaud, fumettista francese underground a cui è da addebitare parte della riuscita grafica del film, è la trasposizione cinematografica del fumetto dallo stesso titolo, creato dalla Satrapi nel 2000. Persepolis è stato il primo fumetto iraniano, per giunta creato da una donna, e questo dice molto del carattere anticonformista dell’autrice.

Il film prende avvio dall’aeroporto di Orly (Parigi), dove una donna adulta, Marjane, attende di salire sul volo per Teheran. Prima del chek-in estrae da una tasca lo chador e lo indossa, e per questo riceve lo sguardo sprezzante di una signora in tailleur col rossetto in mano. Ma Marjane non ha intenzione di prendere il volo. Si siede in sala d’attesa e ripensa alla sua vita. Il film si apre così, non senza una certa nostalgia, sui suoi ricordi, tutti in bianco e nero, che si apre nel 1978 e continua fino al 1990. Marjane è una bambina di otto anni alla vigilia della rivoluzione islamica in Iran. La sua è una famiglia colta e progressista: lo zio comunista è ucciso perché ritenuto un cospiratore politico. Molti amici e conoscenti dei genitori sono arrestati, torturati e uccisi. Marjane è una bambina che non accetta passivamente le consuetudini imperanti. Conosce il rock, compra al mercato nero – come si trattasse di droghe pericolose – i dischi dei Pink Floyd o degli Iron Maiden. Ma l’esplodere del conflitto Iraq-Iran e la parallela restrizione delle libertà, l’infervorasi dell’indottrinamento ideologico, soprattutto a scapito delle donne, consigliano i genitori di trasferire Marjane in una scuola francese a Vienna, quando è ancora una adolescente.

Marjane, diversamente da tutti i suoi parenti che vivono le sofferenze del conflitto, deve affrontare problemi molto diversi, ma non per questo trascurabili o inferiori: deve confrontarsi con un’altra cultura, deve affrontare i traumi della crescita, la perdita della verginità, la delusione del tradimento e dell’amore. È sola e non può contare sul conforto dei genitori, dei consigli pratici e rassicuranti della nonna.


Uno dei temi intorno a cui ruota Persepolis è il problema dell’assimilazione della cultura occidentale da parte di una iraniana. Per Marjane il viaggio a Vienna è allo stesso tempo una scommessa, un trauma e un processo di elaborazione della propria personalità. Rispetto ai propri compagni conosciuti nella scuola francese, fra cui un gruppo di anarchici punk, Marjane ha una profonda coscienza sociale e civile, una storia e una cultura che la rendono sempre diversa. Le feste, l’alcool, la marijuana, ma soprattutto l’amore, il sesso: Marjane scopre lontano dall’Iran un mondo nuovo e scopre se stessa attraverso una evoluzione che non può aggirare la sofferenza, la solitudine, l’incomprensione. Crescere è doloroso. A qualunque cultura si appartenga. In questo modo la storia di Persepolis recupera valenze più ampie e universali.


L’assimilazione culturale conduce Marjane alla perdita della propria identità, e ad uno stato di profonda frustrazione. Ma Marjane rimane fiera di essere iraniana. Quando ritorna a Teheran ben presto si rende conto che non può più sottostare al rigore della cultura islamica. Marjane in Iran non soffre solo per la costrizione del velo, per l’ipocrisia delle sue compagne che in privato si truccano come attrici hollywoodiane, per il divieto di bere alcool: quello che non può più tollerare è il maschilismo di una cultura, l’impossibilità della donna di scegliere. Il prezzo da pagare per la libertà è alto. Non è solo perdere la propria famiglia. È non avere più una patria. Non avere più una Itaca a cui fare ritorno. Diventare un’apolide. Partire e non sapere se il tempo ti potrà dare l'occasione di vedere ancora una volta le persone care.

Attraverso i suoi disegni, le sue figurine in bianco e nero, la Satrapi ci mostra un Iran che è molto più frastagliato e sfumato di quanto un occidentale possa ritenere a prima vista. Fra la vita reale della gente, condotta dietro le mura, sotto i veli neri, e l’ufficialità del paese esiste uno scarto, una differenza, una schizofrenia. Anche se Marjane Satrapi ha abbandonato l’Iran per stabilirsi in Francia non ha mai smesso di criticare ma anche di difendere il proprio paese, di spiegare agli europei, agli americani, che l’Iran non è un concetto astratto, che esistono contraddizioni e spiegazioni più complesse, che non si può liquidare un paese e la sua gente come appartenente all’ "asse del male".

Quando si ha una storia da raccontare la cosa migliore da fare è evitare inutili fronzoli, e prediligere la sobrietà. Persepolis non ricerca il virtuosismo grafico, le realtà virtuali dei film-videogame. È uno spettacolo di ombre cinesi, di figure semplici e fragili che ricordano le scenografie di cartapesta di Méliès. È un film destinato a divenire un vero e proprio classico dell’animazione: un’opera che fa dell’accurata ricerca della semplicità il mezzo per raggiungere la poesia.

Lo stesso articolo è pubblicato anche qui © drammaturgia.it

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martedì 4 marzo 2008

Sweeney Todd. Carne da macello

Burton è invecchiato. Il suo messaggio si è fatto più cupo e solitario. Chi si aspettava un film tutto sommato dilettevole e buonista, resterà deluso.



Più un film dell’orrore che un musical, Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street sorprende per la crudeltà, per il non celato pessimismo, per la cupezza di fondo. I toni gotici e tenebrosi, che spesso contraddistinguono i film di Tim Burton, non sono in questo caso soltanto fattore esterno, scenografico, in cui calare storie tutto sommato convenzionali, sorta di fiabe al contrario, condite di intenso sentimentalismo. Questa volta il palco su cui si muovono i personaggi è più sadico che patetico e il sangue e l’orrore finiscono per offuscare ogni richiamo romantico. Per Burton Sweeney Todd ha rappresentato senza dubbio uno sforzo notevole: piegare un melodramma musicale alla sua poetica, rivendicando in pieno la propria idea di autorialità. [...]

Burton traduce in film la tragedia della vendetta dalle tinte fosche e grottesche di Stephen Sondheim, rispettando in gran parte testo e musica. L’adattamento di Sondheim del 1979 per i palcoscenici di Broadway, che ha fatto conoscere la storia di Sweeney Todd allo stesso Burton (il quale ne vide la messa in scena negli anni ottanta, quando era uno studente in vacanza a Londra), si rifà ad una versione elaborata nel 1973 da Christopher Bond, in cui per la prima volta veniva data una giustificazione sentimentale agli atti del diabolico barbiere: un uomo potente e malvagio, invidioso di Todd e della sua bellissima moglie, imprigiona ingiustamente il barbiere, lo fa allontanare dalla città per approfittare con l’inganno e la forza della donna. Quando Sweeney Todd fece la sua prima comparsa al pubblico, in un romanzo a puntate del 1846, Todd era un assassino che uccideva unicamente per denaro: tagliava la gola ai suoi clienti facendoli precipitare in uno scantinato dalla poltrona da lavoro; la sua complice e amante, Mrs Lovett, triturava i corpi e con l’impasto farciva dolcetti da vendere nella sua pasticceria a clienti ignari ma soddisfatti. Sulla storia di sangue del plot originale, il melodramma di Sondheim introduce temi che vanno dal Conte di Monte Cristo a The Revenger's Tragedy: la corruzione del potere diventa la causa principale di ogni male; l’avidità giustifica la furia di Todd. Ma è la vendetta a diventare la vera ossessione e il centro dell’azione.


Burton aveva pensato da tempo di portare sullo schermo questo musical. Adesso, con un Leone d’oro alla carriera sul comodino, può permettersi di rendere omaggio a un’opera che lo ha sedotto, senza preoccupazioni riguardo a un genere, quello musicale, che troverà non poche diffidenze da parte dei fan abituali. Tuttavia mentre il musical di Sondheim è più tendente al grottesco che al tragico, e lascia trasparire vivaci sfumature comiche, la trasposizione cinematografica di Burton e Johnny Depp (nella parte del barbiere) piega quasi inaspettatamente verso l’horror cupo e senza speranze. Se le scene del taglio della gola a ritmo di musica con il sangue che schizza fino al soffitto appaiono una danza umoristica, l’immagine e il tonfo dei corpi che cadono dalla micidiale poltrona di Todd giù nella cantina rompendosi l’osso del collo, contribuiscono a spegnere il riso e a suscitare una certa inquietudine. Solo l’interpretazione di Sacha Baron Cohen (l’ex Borat), con il suo istrionismo e il suo spassoso accento italiano, riesce a strappare risate convinte.

Il personaggio di Todd presenta molte analogie con quello di Edward mani di forbice. Ma sono affinità che si fermano alla superficie. Sweeney Todd, diversamente da Edward mani di forbici, non offre nessuna consolazione, neanche quella nera in stile burtoniano dei suoi eroi di plastilina. Sia Edward che Todd usano delle lame come prolungamento della propria fisicità e il loro mestiere è d’altronde piuttosto simile, parrucchiere (poi giardiniere) uno, barbiere l’altro. Edward è un giovane adolescente con delle lame al posto delle dita: questa strana malformazione non gli permette di rapportarsi all’altro, perché tutto ciò che tocca si rompe o è ferito (come accade anche agli adolescenti nei loro primi approcci). Edward è un timido che attraverso una vera e propria educazione sentimentale riesce a trasformare il suo handicap in una virtù. La prospettiva di Todd è rovesciata. Il barbiere si serve delle lame non per conoscere il mondo ma per uccidere, sono il suo strumento di vendetta. Mentre Edward viveva con tristezza e timore la sua menomazione fisica, Todd nutre verso le lame d’argento una intensa fascinazione. L’immagine di Todd, più volte riproposta da Burton, è quella di una personalità inafferrabile, che appare rifranta in varie schegge da uno specchio rotto.

Todd è povero e ingenuo. Quando uccide senza saperlo la sua amata, capiamo che non ha mai smesso di recitare la parte della vittima. Per quanto si agiti, per quanto sia buono o malvagio, per quanto distrugga o crei, egli non è l’artefice del proprio destino. Questa nota tragica permette di farci sentire più vicino un personaggio che altrimenti rimarrebbe estraneo allo spettatore. L’unico vero sentimento che Burton racconta è l’amore di Mrs. Lovett (Helena Bonham Carter) per il barbiere. Ma anche questo si dimostrerà in fondo crudele. Foolishness e naïve, ingenuità e stupidità, sono le colpe di Todd. Così come è stato ingannato dal terribile giudice, allo stesso modo sarà ingannato anche da Mrs. Lovett. Prima dal potere e poi dall’amore.

Burton riesce a recuperare il senso di crudeltà della storia originale in cui il mondo vittoriano, con la sua rivoluzione industriale, la fiducia nel progresso e nella crescita economica, finisce per divorare se stesso. Gli avventori insieme ai pasticcini mangiano non solo pezzi di carne umana, ma si nutrono della loro stessa bramosia di denaro. Un cannibalismo della merce sulla merce. Mrs. Lovett che inizialmente per i suoi dolcetti utilizzava solo gatti e pane, grazie all’attività di Todd ha molta più carne a disposizione, e il suo pie-shop riscuote un grande successo. L’uomo mangia l’uomo, negli affari e nella vita quotidiana. «We all deserve to die./ Because the lives of the wicked should be/ Made brief. For the rest of us, death/ Will be a relief». (Noi tutti ci meritiamo di morire. Perchè la vita dei malvagi deve essere abbreviata. Mentre per gli altri la morte sarà un sollievo). Homo homini lupus. La sopravvivenza e la sopraffazione diventano le uniche spinte veramente reali del dramma.

Burton a questo punto della sua carriera forse sente di poter arrischiare qualcosa di più. Il suo intento è non tanto compiacere il pubblico, ma realizzare - come lui stesso ha affermato - «un film muto accompagnato dalla musica», dimostrare il suo amore per il cinema, soprattutto quello in bianco e nero, muto ed espressionista. Per questo l’astrazione del film è portata all’eccesso, fino a costruire un mondo di incubi in formato cartapesta, una Londra vittoriana tenebrosa che rispecchia l'interiorità dei personaggi. Il volto di Depp è congelato in una maschera inespressiva che sottolinea il carattere di estraneità e indifferenza di Todd rispetto a quello che gli accade. La voce e il canto di Depp, dalle tonalità basse, monotone e rock metal, molto lontane da quelle di un basso baritono professionale, si adattano perfettamente al personaggio voluto da Burton e garantiscono incisività a Todd.

Il film è anche un omaggio a Federico Fellini: le scenografie di Dante Ferretti, il rapporto con l’attore feticcio Depp che ricalca quello Fellini-Mastroianni, la costruzione di un mondo che ha importanza non per quello che realmente è ma solo per quello che simboleggia. Il messaggio di Burton si è fatto cupo e privo di finalità. Il rischio tuttavia è che il suo film (o il suo cinema) finisca per avvilupparsi su se stesso, diventi un balocco ricercato e affascinante, ma, in conclusione, autoreferenziale e inoffensivo.

Lo stesso articolo è pubblicato su drammaturgia.it (con qualche cambiamento)
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Un Oscar meritato: Non è un paese per vecchi

No country for old man ha diversi e stratificati livelli di lettura e di senso. Impossibile scomporlo completamente. Per comprendere meglio il film è necessaria una lettura del romanzo di McCorman, da cui è tratto (quasi una sceneggiatura, in cui non mancano le indicazioni di regia). Consiglio vivamente la visione e la lettura, di film e romanzo.



Vi sedete nella sala pensando di assistere a un racconto capace di sedurvi, intrigarvi, o solo disgustarvi, e invece – almeno questo è quanto mi è accaduto – la sensazione che lascia No Country for Old Man, l’ultima opera dei fratelli Coen (Joel e Ethan), autori di opere come Fargo, Il grande Lebowsky, L’uomo che non c’era, è quella che qualcuno si sia piazzato proprio dietro la vostra poltrona e, verso la fine del film, vi abbia colpito, senza farsi vedere. Una stoccata alla schiena. Una impressione di disorientamento e di lieve frustrazione, la percezione di essere stati "giocati" dagli autori, diviene parte del film e della sua riuscita. Questo risultato è in gran parte da addebitarsi alla solidità della sceneggiatura, che ricalca in modo piuttosto preciso le orme del romanzo di Cormac McCarty dallo stesso titolo (Einaudi 2006). [...]
I Coen hanno preso la storia di McCarty, già di per sé spoglia, asciutta, scarnificata, e hanno ridotto il nodo narrativo all’essenza più semplice e lineare, realizzando un racconto di fuga e inseguimento. A fuggire è il giovane Llewelyn Moss (Josh Brolin), che a caccia di antilopi nel deserto del Texas si imbatte sulla scena di uno smercio di droga e denaro finito male. A terra rimangono i corpi senza vita dei trafficanti messicani, un pick-up carico di cocaina e una borsa piena di dollari, che Moss decide di caricarsi in spalla. Sulle tracce di Moss e della borsa si mette Anton Chigurh – si pronuncia "sugar", "zucchero", come da facile ironia americana – (un inquietante e grottesco Javier Bardem), un killer folle e spietato dall’aria di bambino cresciuto, dotato di pistola ad aria compressa, di quelle usate per uccidere il bestiame nei mattatoi. A inseguire entrambi è lo sceriffo Ed Tom Bell (una parte che sembra cucita addosso a Tommy Lee Jones), in odore di pensione, amante di cavalli, della propria terra e della propria moglie, che vorrebbe raggiungere Moss prima di Chigurh.

No Country for Old Man descrive molto bene la crisi e la fine di un mondo, quello dello sceriffo Bell, il custode dell’ordine e della legge, e del cowboy Moss, veterano del Vietnam. Sono entrambi il relitto di un cinema non più proponibile, gli eroi dell’epopea al tramonto, ora alla prese con la venuta di un altro tipo di uomo che agisce senza motivi, senza ragioni e senza fini, e che proprio per questo non può essere sconfitto. Chiurgh è incomprensibile alle ragioni dello sceriffo. Eppure probabilmente Chirurgh non è solo. È il punto più appariscente di una più grande e frastagliata platea che si compone di miriadi di giovani, di una nuova genia che spinge per entrare in scena.

I Coen non potendo trasferire tutti i temi toccati dal romanzo (come quello della frattura procurata dalla guerra del Vietnam, che nel film non trova posto) hanno levigato e asciugato ulteriormente il racconto di McCarty. Le vecchie regole del racconto ci sono tutte, solo che sono utilizzate in modo da condurre lo spettatore in acque incerte, prive dei tradizionali punti di riferimento. A questo proposito è emblematico il lavoro sul rapporto suono/immagine. La colonna sonora è quasi assente. Il suono, a cui spesso è affidato il compito di sorprenderci, di creare una tela sottile di tensione e di guidarci verso ciò che non ci aspettiamo, è in questo caso ridotto al minimo, a pochi e flebili rumori, diretti con maestria dal sound designer Skip Lievsay (che per questo lavoro probabilmente riceverà l’Oscar). Basta il bip della trasmittente ad amplificare lo sgomento per l’assassino che si avvicina. È il silenzio a costringerci a stare in ascolto di ogni più piccolo scricchiolio che proviene da dietro la porta. È il vento che fischia nei microfoni, non un coro di archi, a rendere ancora più profondo e misterioso il paesaggio arido e spoglio del deserto texano. Se il suono si compone di richiami minimali, l’immagine recupera tutta la sua forza evocatrice. I Coen dispongono ogni inquadratura assecondando un formalismo così intenso da apparire quasi ossessivo, maniacale, nelle continue riprese dall’alto, dall’altezza dei fari della macchina (come non pensare a David Lynch?), nelle visioni spesso filtrate da binocoli, finestrini, pertugi.

Nel film dei Coen lo scontro fra lo sceriffo Bell e un nuovo mondo che sta nascendo, quello incarnato da Chigurh, assume i contorni di una nostalgica riflessione su un modo di fare cinema e su un genere di personaggi che si sta perdendo o forse si è già smarrito. I fratelli Coen traggono dal romanzo lo spunto per una introspezione sulla morte di un tipo di cinema, attraverso il genere per antonomasia, quello western. Il film ci pone davanti le nostre attese di spettatori, che, una dopo l’altra, vengono frustrate e demolite, rivelate nel loro carattere di artificio retorico. In quale personaggio del film è possibile identificarsi? Non certo nel vecchio sceriffo che non appartiene più a quel mondo. Nel giovane Moss? La sua fine non ce lo permette. L’eroe dell’epopea può anche morire, se ad ucciderlo è il killer spietato e invincibile; ma se viene assassinato da personaggi secondari, che non vediamo, che non conosciamo, e in un modo che possiamo solo ricostruire con pochi indizi, con poche immagini, come possiamo identificarci in lui? Si può accettare che l’eroe sia sconfitto dalla stupidità?

Nel cinema dei Coen i personaggi che si salvano sono spesso quelli che invece di agire si accontentano di guardare, di interrogarsi su ciò che vedono. Lo sguardo diventa una, forse l’unica, dottrina filosofica che può guidare la conoscenza, che invita alla verifica delle forme e dei limiti dell’attività umana. Ma lo sguardo da solo non è sufficiente, poiché per sua stessa definizione non può essere obiettivo. Più si guarda una cosa e meno la si capisce (come si affermava in L’uomo che non c’era). L’uomo che non c’era descriveva come negli anni cinquanta, dopo la guerra e in seguito alle sue tragiche conseguenze, avevano fatto la comparsa dei personaggi che non sapevano più come comportarsi, personaggi che «vedevano piuttosto che agire: erano vedenti» (Deleuze). Dopo un tempo incredibilmente ristretto, negli anni ottanta, in cui è ambientato No Country for Old Man, si affaccia un nuovo tipo di personaggio (o di persona?) che non si muove più come i precedenti, che non ha una dimensione psicologica, che rifugge la stessa idea di pathos o di sofferenza. I protagonisti in cui gli spettatori sono stati abituati a identificarsi per anni, gli eroi pronti a condurci verso lidi inesplorati, intenti alla ricerca di qualche santo Graal da donarci alla fine del viaggio, devono fare i conti con un essere che non avevano mai visto prima. Non si tratta però di lottare contro un mostro, contro Polifemo o Alien. Moss e Todd lottano contro qualcuno che non possono capire e non riescono nemmeno ad immaginare come sia fatto. Potrebbe essere uno psicopatico oppure un ragazzino drogato con i capelli verdi e il piercing al naso, simile ai loro nipoti. Il sistema di valori su cui si fonda la vita di Bell e dello stesso Moss sono in frantumi; ma solo lo sceriffo ne ha una lucida consapevolezza. Cade la responsabilità rispetto alle proprie azioni sulle quali non si abbatte nessun giudizio divino, nessuna nemesi. Chi è rimasto a guardare, come lo sceriffo Bell, racconta di un mondo che sta tramontando.
Alessandro Baricco aveva scelto proprio una delle frasi del romanzo No Country for Old Man come epigrafe del suo breve saggio sui "Barbari" (pubblicato a puntate su «la Repubblica» tra maggio e ottobre 2006 e poi uscito per Fandango). Alla ricerca delle tracce della mutazione in corso fra una sensibilità "romantica" e un nuovo tipo di sensibilità che respira con le branchie di Google, a cui ancora fatichiamo ad attribuire un nome, Baricco aveva rintracciato proprio nel romanzo di Cormack una traccia evidente di questo cambiamento, l’idea di morte dell’anima. È necessario abbandonare l’anima (intesta come l’insieme di gesti, di riti, che regola la creazione della tradizione), ripudiare la profondità in favore della superficie, la complessità per la facilità, la lentezza per la velocità, se si ha come unico scopo l’ampliamento del mercato. Niente può più appartenere a un ristretto gruppo di detentori del gusto: ogni prodotto, anche artistico, deve essere semplificato e privato dell’anima se si vuole raggiungere una massa globalizzata.

Come può l’arte esprimere questa mutazione senza mutare essa stessa? È anche un modo di raccontare, sotto bersaglio del killer. Sotto la sua pistola ad aria compressa è finita una possibilità di partecipare all’azione rappresentata. Un modo di identificarsi con l’altro, di interrogarsi sull’altro, di comporre un dialogo sulla differenza, sull’alterità, non è più proponibile. «Come si può parlare con uno che per sua stessa ammissione non ha un’anima?», dice McCarty nella prima pagina del suo romanzo. Uno dei due termini necessari al dialogo si è ritirato, nel senso che si è trasformato. Non si può parlare con qualcuno che non solo non parla la tua lingua, ma è una specie di alieno, venuto da un altro pianeta e un altro mondo. Senza niente da condividere per sua stessa ammissione.

Il cinema è chiamato a dare una visione a questa trasformazione o a perire. Nella mutazione del personaggio e del cinema è chiaro da che parte stanno i Coen: dalla parte di chi ancora ricerca la retorica (in senso positivo s’intende) della bella inquadratura, al costo di rischiare il manierismo; contro l’arretramento estetico dell’immagine-pixel, che propone il brutto per il vero, come unica realtà data. Che sia nei toni violenti ed eccessivi dell’horror o nei mondi fittizi e autoreferenziali del kolossal fantasy o nei docu-film che più che documentare certificano verità già rivelate, il racconto moderno diventa puro e semplice divertimento. Senza centro, senza pathos, senza più il tragico, il racconto si srotola sulla superficie delle regole del gioco. Vi è ancora la possibilità di un cinema che rifletta sul problema di cosa e come si rappresenta? Se sì, esso forse è solo un cinema nostalgico, destinato a divenire chincaglieria del XXI secolo? I Coen non danno una risposta, ma nella loro domanda vi è già una forte e salda presa di posizione.
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lunedì 3 marzo 2008

Perché un blog?

Perché no?
Perché stare sempre protetti dietro le file rassicuranti delle barricate alla fine è stancante, e noioso.
Perché volevo provare a confrontarmi prima con me stesso e poi con l'altro, chiunque sia.
Per provare a parlare e ad ascoltare tramite altre forme, meno convenzionali (almeno per me).
Per optare, cernere, decidere, scegliere. O almeno provare.

Per parlare prima di tutto di una passione, quella per l'immagine in movimento, l'arte del tempo, il cinema. A cui ho dedicato anni di studio e ricerca.

Per parlare di quello che una vecchia parola avrebbe compreso in tutti i significati - politica - ma che ora appare più consono declinare, con una gemmazione di senso, in cultura e opinione.

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